Giro d’Italia: a Oropa rivive il mito di Marco Pantani, grazie a Pogacar

Le gesta nel nome del Pirata

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È successo ancora, evidentemente a salire verso il santuario di Oropa in sella ad una bicicletta deve sempre succedere qualcosa di disdicevole al monarca. A quanto pare, è questa la volontà che si tramandano gli sceneggiatori del ciclismo. Così, quando ai piedi della salita una foratura ha disarcionato Tadej Pogacar, costretto a mettere le mani a terra e a rialzarsi precipitosamente, chi sul groppone ha almeno una quarantina di primavere non può che aver pensato a quel giorno in cui, stesso posto e stessa ora, Marco Pantani scrisse una delle pagine di ciclismo più luminose di sempre, divorando con la rabbia triste che lo ha reso immortale la scalata che più di ogni altra fu paradigma della sua tribolata esistenza. Oropa, appunto, quando si dice un back in the days.

Pogacar, in questo Giro d’Italia forse tecnicamente più scarso a memoria d’uomo, è il faro e, al contempo, di questo ciclismo è un fuoriclasse destinato a riscrivere le regole e gli almanacchi.
Un gigante e non è certo colpa sua se l’avversario più quotato nella corsa rosa 2024 è il sempre pugnace Geraint Thomas, uno che merita tanta ammirazione quanti sono i chilometri percorsi in carriera ma che ha nel mirino i quarant’anni. Viene da sé che la rincorsa che gli ha consentito di risalire il gruppo dei battistrada, detto dell’evidente ricordo storico, pur non avvicinando per epica quella che il Pirata mandò in onda ormai un quarto di secolo fa ha costituito comunque un bel momento di sport in un pomeriggio purtroppo scontato nel suo epilogo. Piccato per il contrattempo, lo sloveno, pilotato dai suoi gregari nella sfida al tempo perduto, una volta in testa ha assestato un solo scatto nemmeno troppo convinto per ritrovarsi tutto solo al comando, preludio dell’arrivo a braccia alzate sul traguardo al culmine di una ventina di minuti di agiata solitudine. Routine, il compimento della legge del più forte.

O’Connor, Thomas e Uijdtebroeks, Lipowitz e Martinez, gli ultimi ad arrendersi, sono ciclisti di grande valore, e qualcuno pure di luminosa prospettiva, ma a nessuno verrebbe in mente di paragonarli a divoratori di pendenze ostili come Jalabert, Simoni, Gotti, Heras e Savoldelli che il 30 maggio dell’anno nefasto 1999 si videro sopravanzare a velocità doppia da Pantani, intriso di quella furia agonistica di chi ha per avversario soprattutto il destino. A nove chilometri dalla vetta, quando la salita si appresta a diventare tale, quel giorno a Marco salta la catena e non avrebbe potuto esserci momento peggiore. Sono almeno una trentina i secondi spesi con i piedi a terra mentre davanti alla corsa si cominciano ad innestare le marce alte. Velo, Borgheresi, Zaina, Brignoli e Podenzana, i suoi fidati gregari, si fermano per attenderlo. Il risultato è una cronometro di squadra, la mitica Mercatone Uno-Bianchi, ma Pantani, con i muscoli resi legnosi dal nervosismo, sembra non riuscire nemmeno a tenere il passo dei compagni. Sembra.

Poi, però, il falsopiano diventa salita vera, la sua comfort zone, e d’incanto la pedalata riprende vigore quando davanti a lui sono una cinquantina gli avversari da dover riacciuffare. Il linguaggio del corpo è quello che riconosceremmo tra mille altri: faccia sofferente, mani basse sulle corna del manubrio e rapporto chilometrico nell’incedere ‘en danseuse’, come direbbero i cugini d’oltralpe; con la bicicletta furiosamente sballottata a destra e sinistra fin quasi a sfiorare l’asfalto. Ogni colpo di pedale è un sorpasso che viene impreziosito dalla voce narrante del compianto Adriano De Zan che ha il privilegio di raccontare, con il garbo e la competenza che lo contraddistinguono, un momento di sport di inesausta bellezza.

Pantani scalcia forte sulle pedivelle, è contornato da avversari ma non vede nessuno. In strada come nella vita. La solitudine, quale cifra stilistica del più grande scalatore di questo o di altri eventuali mondi. Quando a due chilometri dalla vetta mette nel mirino la sagoma di Jalabert, l’ultima valorosa lepre di giornata, il destino è già compiuto. Marco non gli rivolge nemmeno uno sguardo, lo affianca e tira dritto verso il traguardo. Marco, la maglia rosa, il nastro d’asfalto che gli si inerpica sotto alle ruote, lo scatto perpetuo, l’agonia da abbreviare, il santuario sullo sfondo, le urla dei tifosi, i tormenti di una personalità inquieta, sono tutta una cosa sola: la sublimazione del ciclismo. Vede lo striscione d’arrivo sempre più da vicino ma l’espressione del volto non accenna minimamente a cambiare. Non c’è traccia di gioia e le braccia non si alzano a cercare il cielo. Solo il furore di chi ha necessità di combattere un nemico ogni volta più grande per sentirsi vivo. Nell’occasione, senza nemmeno sapere, perché non è ciò che più conta per lui, di essersi messo tutti alle spalle.

Dev’essere ringraziato, Pogacar, per aver rinverdito e onorato con la sua classe sopraffina, seppur con tutti i distinguo del caso, quella che senza timore di smentita può essere considerata la più entusiasmante rimonta di sempre compiuta da un ciclista. Acme, prima che la cattiveria umana si accanì su Marco con l’epilogo che tutti conosciamo fin troppo bene. Sembra ieri ma sono passati venticinque anni in un mondo profondamente cambiato. A non cambiare mai, invece, è la passione che noi, popolo del ciclismo, nutriamo per uno sport meraviglioso e per interpreti come Marco, o come Tadej, che trasformano un esercizio di brutale sofferenza in un’opera d’arte. Sport che è vita, e viceversa. Dunque, grazie.

A Marco.

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