Agosto 2016, Bergamo. Una vita, nelle dinamiche calcistiche. L’Atalanta Bergamasca Calcio del Presidente Percassi è a un bivio. I petrodollari stanno inesorabilmente scavando un solco profondo tra chi li ha e chi invece no e, forse come non mai, per ritagliarsi un minimo di gloria serve compensare il deficit con fosforo, fantasia e lungimiranza. E pure rischio, senza il quale non si va mai da nessuna parte. Gente laboriosa, i bergamaschi, e non è il solito cliché. Se dev’esserci un condottiero, quindi, che sia uno che dai suoi giocatori sappia estrarre fino all’ultima goccia di sudore, oltre che da sé stesso. Del resto, il mondo del calcio comincia a riempirsi di compagini costruite con la disponibilità di montagne di euro ma in assenza di competenza e ancor meno propensione al sacrificio, con risultati spesso inversamente proporzionali agli esborsi estivi. Percassi, anche perché impossibilitato a farlo, nel tranello emorragico decide di non cascare e, così, sceglie di affidarsi a Gian Piero Gasperini, uno che a definire divisivo si sottovaluta la situazione ma di idee granitiche e disciplina militare. In soldoni, con Gasperini fischietto in bocca, c’è da sudarsi la pagnotta.
L’ultimo campionato non è stato dei più entusiasmanti, chiuso al tredicesimo posto sotto la guida di Edy Reja, tutto senza infamia e senza lode. Troppo poco per l’idea di Atalanta che s’è fatto Percassi, imprenditore abituato ad arrampicarsi in alto. Gasperini, dal canto suo, è reduce dalla seconda esperienza a Genova, sempre sponda grifone. Nulla di trascendentale anche per lui, con una salvezza tranquilla senza particolare enfasi. Assai meno tranquille le precedenti parentesi di Milano, con annesse epidermiche incomprensioni in casa Inter, e poi di Palermo. Che a guardare com’è andata avanti la vita dei vari attori protagonisti viene da pensare che la colpa degli insuccessi non fosse esclusivamente la sua. Ma tant’è.
Il Direttore sportivo è ancora Giovanni Sartori, oggi artefice del miracolo bolognese e in passato pure di quello clivense e del minuscolo quartiere di Verona, per il quale la presentazione è superflua considerato il suo curriculum debordante di riconoscimenti. A Bergamo ci è rimarrà per otto stagioni, contribuendo in maniera decisiva a generare plusvalenze per la cifra stratosferica di trecentocinquanta milioni di euro e, alla luce dei risultati conseguiti, non serve aggiungere altro. Uno poco appariscente, infatti non lo si vede mai, ma che studia il mondo del calcio in maniera certosina e del quale conosce ogni impercettibile sfaccettatura. Di professione, Sartori scova talenti in giro per il globo e difficilmente sbaglia un colpo.
Per il triumvirato Percassi-Gasperini-Sartori, però, l’inizio di quel campionato è un vero inferno. I giocatori non capiscono il tecnico e il tecnico fatica a farsi capire dai suoi. Pochi punti e tanti gol nella porta sbagliata relegano ben presto la compagine orobica nei bassifondi del classifica, posizionata in basso a destra sul teleschermo. Cinque partite, una vittoria, quattro sconfitte. La partita col Crotone, ovviamente non era ancora dato sapersi, sarebbe diventata l’inizio di una meravigliosa storia di sport perché il più classico degli spartiacque. L’Atalanta è spalle al muro, a Cuba direbbero vittoria o morte. Petagna, centroboa di una squadra per l’occasione fatta finalmente da ragazzi con la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue, dopo soli tre giri di lancette sigla il gol dell’uno a zero e il destino della Dea comincia a compiersi. Con quella, saranno otto vittorie in nove partite, il preludio al quarto posto finale che significa la conquista dell’Europa, un traguardo che mancava a Bergamo da un quarto di secolo
Gasperini, a quel tempo, poté contare sulla stima incondizionata del Presidente che calcisticamente parlando lo ama in maniera viscerale, proprio per quel suo essere altisonante nell’interpretazione del soccer. Chiunque altro al suo posto gli avrebbe dato il benservito, a valle di due righe di comunicato ufficiale e una stretta di mano di commiato poco cordiale. Percassi, a cui va il merito saper coltivare dove altri pensino non possa crescere nulla, si disinteressa dei malumori della piazza e con ostinazione tira dritto fino alla svolta. È la genesi dell’Atalanta più forte di sempre. Migliore anche di quella che quasi sfiorò la Coppa delle Coppe, allora si chiamava così, e della banda di Mondonico (a proposito, ciao Maestro ovunque tu sia) trainata dal tridente Lentini-Inzaghi-Morfeo.
Detto di Sartori, dirigente che sta alla scrivania come Cristiano Ronaldo sta al rettangolo verde, c’è, appunto, Gasperini a dirigere l’orchestra dalla panchina. Per troppi sedicenti addetti ai lavori, e per non dire degli aficionados, è solo un visionario nella peggiore accezione possibile, uno che fuori dalla provincia vale poco. Anzi, vale poco e basta. Dicono. Noncurante dei tromboni, con quel fare che se non è simpatico sornione lo è di sicuro, prende per mano ragazzi scelti con cura certosina e antesignanola intelligenza e fa sì che la risposta del campo progressivamente diventi esondante, una marea nerazzurra. Gli Ancelotti e i Guardiola saranno pure grandi tecnici, o almeno così sono considerati, tuttavia non serve ricordare che in campo ci vanno i giocatori a fare il macinato e a loro due spettano sempre i soggetti migliori. Nonostante ciò, quello del Gasp è il calcio in assoluto più moderno espresso dal nostro campionato che è omologato al ribasso senza più l’appeal da primi della classe come un ventennio fa. L’Atalanta, quindi, è uno spaccato di Europa nel Bel Paese ed il risultato è che per gli avversari doverla affrontare rappresenti un’esperienza inesplorata e (per loro) disagevole. Un calcio che significa intensità asfissiante, movimenti coordinati, coralità, talenti messi nelle condizioni di esprimersi che significa uomini giusti messi al posto giusto.
Tutto ciò, affinché il valore complessivo di squadra possa essere infinitamente superiore alla somma algebrica del valore dei singoli, in quella che è un’interpretazione rugbistica del calcio. Ecosistema, quello della palla ovale, egemonizzato dalla parola ‘sostegno’, dunque il prodigarsi affinché il compagno possa avere più libertà di espressione possibile. Una sorta di uno per tutti e tutti per uno che Gasperini trasforma nell’epicentro della costruzione di una macchina da calcio concettualmente perfetta. Stagione dopo stagione, il team che erroneamente continua a essere definito una sorpresa, solidifica le proprie credenziali esibendo, oltre a un gioco identitario e riconoscibile tra mille, le stimmate dei grandi. Non sorprende, quindi, che già nel 2020 l’Atalanta sfiori il bersaglio grosso della semifinale di Champions League. Traguardo svanito ma solo sul filo di lana a valle della sconfitta contro il PSG e i suoi sceicchi, bravi e fortunati nel raddrizzare una partita che sembrava ormai in ghiaccio quando il cronometro già percorreva i minuti di recupero. E se in Italia la figura di Gasperini continua ad essere demonizzata, forse per via di quella cifra stilistica poco incline a divenire stereotipo ed alla mancanza del politically correct che piace al palazzo, in Europa è tutto un tributo. Il resto è storia recente, abbacinante anche senza più Sartori. E pure senza un sacco di giocatori formidabili; svezzati, cresciuti e valorizzati prima di essere venduti e sostituiti, senza che ciò potesse pregiudicare la qualità complessiva di squadra. Una storia, questa atalantina, che dice due cose, tante quante sono le finali che i ragazzi del Gasp si apprestano a disputare: coppa Italia ed Europa League. La prima contro la Juventus e la seconda contro quel Bayer Leverkusen che oltre ad aver vinto la Bundesliga non perde da una cinquantina di incontri. Uno: sebbene i miracoli non esistano, la possibilità di fare grandi risultati lontano dalle metropoli e con un occhio attento al bilancio è sempre possibile. Due: è facendo le cose per bene, dalla scrivania al campo, che si va a Liverpool per tuffarsi nella bolgia dantesca dell’Anfield vestito di rosso fuoco e vincere con tre gol di scarto, annichilendo tipi poco raccomandabili come Salah o van Dijk. Mica male per un allenatore che in patria nessuno o quasi prende mai sul serio. Al punto che parlare oggi di miracolo, riferendosi alle vicende atalantine, risulti grottesco. La dimostrazione tridimensionale che nulla è davvero precluso se dalla propria si hanno competenza e desiderio. Già, la volontà. Perché, parafrasando Mondonico che ne fece un cavallo di battaglia, non sempre a vincere è il più forte, spesso è colui che ha più voglia. La certezza Atalanta, perché oggi è di ciò che si parla, andrebbe quindi raccontata sui libri di studio per aspiranti tecnici di calcio tanto è elevata la sua carica pedagogica.
Con due finali alle porte e la possibilità concreta di innalzare l’asticella fin dove sembrava impossibile a certe latitudini, quella dell’Atalanta è già da ora una parabola che dà lustro ad uno sport fatto di protagonisti non sempre all’altezza del ruolo e che riconcilia con il calcio pionieristico degli albori. Quello di Matteo Ruggeri, per esempio. Bergamasco doc e tifoso della Dea ben prima di diventarne un valoroso effettivo, che, nella serata forse più importante in un secolo abbondante di storia neroazzurra, con un gol alla Del Piero – quelli in cui la traiettoria della palla descrive una curva euclidea e inafferrabile – fa saltare in aria una città intera. Davanti agli occhi furbi del Gasp, il condottiero, che se la ride sotto ai baffi alla stregua di chi la sa sempre un po’ più lunga degli altri.