Hubert Hurkacz, ragazzo dal nome impronunciabile e di qualità tennistiche di prim’ordine che fanno di lui un gran bel giocatore, rischia seriamente di essere ricordato dagli appassionati, con almeno una trentina di primavere sulle spalle, più per una coincidenza che a definire nefasta si sbaglia per difetto che per i successi già conseguiti e quelli che per certo verranno. Il ventisettenne di Wroclaw, infatti, dopo aver messo fine alla carriera di Roger Federer sui sacri prati di Church Road, sconfiggendolo sul giardino di casa in quello che di fatto fu l’ultimo vero match dello svizzero, potrebbe aver messo per sempre la parola fine alle velleità di vittoria anche della nemesi del basilese, Rafa Nadal, avendogli impartito nella serata romana appena trascorsa la lezione più severa forse di un’intera carriera e, comunque, dell’ultimo ventennio, da quando Nadal è assurto a monarca dei campi rossi.
Ad essere eloquente non è tanto lo score ma la sensazione che il gap tra il fenomenale maiorchino e un giocatore di prima fascia – Hurkacz è frequentatore con merito della Top 10 – non sia più colmabile. Nemmeno con la propensione al sacrificio estremo che ne caratterizza il corredo cromosomico, la competenza tennistica di uno dei giocatori più intelligenti della storia della disciplina, il sostegno del mattone tritato e l’amore incondizionato del pubblico presente. Insomma, se il 6-0 finale rifilato da Hurkacz a Federer a Wimbledon ci disse che l’epoca del giocatore più talentuoso di questo ed eventuali altri mondi era ormai solo motivo di nostalgia, i quattro giochi concessi a Nadal, peraltro senza nemmeno scomodare le marce alte per non infierire oltremodo, salvo miracoli ci raccontano più o meno la stessa cosa. L’inesorabile legge del tempo, Chronos che rende impotenti anche i dioscuri. Giocherà ancora Rafa, perché il Roland Garros e le Olimpiadi parigine sono alle porte e lui farà di tutto per esserne parte nella migliore versione possibile, proprio sui campi in Bois de Boulogne che lo hanno visto giganteggiare. Ma più per una dolorosa forma di commiato che per convinzione; spazzata via, quest’ultima, dalle bordate del granatiere polacco e da un linguaggio del corpo inequivocabile.
Nadal, in palese affanno fisico e di timing, ha commesso in un’ora o poco più di partita la quantità di errori gratuiti che nei momenti belli avrebbe messo a referto in un torneo intero, forse due, apparendo spaesato nella gestione del match perché privo di ogni possibile contromossa. Vedere annaspare il dieci volte vincitore degli Internazionali d’Italia nell’oceano di mattone tritato, padroneggiato per due decadi come Nettuno, è stato sportivamente doloroso come la fine di un amore grande che ci ha visto crescere.
Perché Nadal, che con Federer ha saputo catapultare l’universo tennis in una dimensione senza confini, dev’essere a ragione considerato il più feroce combattente che si sia mai cimentato nel gioco che fu pallacorda, l’uomo che meglio di ogni altro ha rigettato il concetto di sconfitta. Nadal, la più azzeccata definizione di agonista nelle pagine di un’enciclopedia. Uno capace di umanizzare financo il Federer della prima decade degli anni duemila, quello che pareva non poter essere battibile dagli umani e che, invece, è finito per perdere ogni particella di certezza al suo cospetto. Uno certosino, che ha sublimato il concetto di lavoro, grazie al quale ha saputo aggiungere al proprio tennis ogni volta qualcosa in più per anticipare il passo dei cambiamenti. Archetipo di dedizione e fede incrollabile.
Lo sport, lapalissiano, sopravvive sempre alla pensione dei suoi più illustri protagonisti e il tennis non farà eccezione nemmeno per l’epocale spagnolo. Tuttavia, non è affatto scontato che chi arrivi poi possa esibire la stessa qualità di chi lo ha preceduto. Con Rafael Nadal, e con i tempi poco entusiasmanti che corrono, siamo proprio di fronte ad uno di questi casi ed è la ragione per la quale, noi aficionados dediti a pane e tennis, questa mattina ci siamo tutti svegliati un po’ più tristi.