Abbiategrasso, velo islamico, identità e desiderio di felicità: la riflessione di Michele Pusterla

Il sindaco Nai: condivido pienamente

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Sul tema del velo, innescato ad Abbiategrasso dopo il caso dell’istituto Bachelet, registriamo la riflessione del consigliere comunale Michele Pusterla.

Non ho scritto nulla di getto, quando il tema legato al Corso di Arabo e alla questione del velo è stato sollevato a livello locale e nazionale, per il preciso intento di sfuggire alla cultura da twitter che prevede di dover dire qualcosa nel giro di poche ore senza approfondire.

Avrei voluto leggere questo mio intervento nel Consiglio Comunale del 29.4 a seguito di una Mozione presentata da parte dei consiglieri di Opposizione, ma poiché il clamore da entrambi le parti era già scemato, gli stessi hanno pensato bene di ritirarla per proporre iniziative volte a continuare ad alimentare le prese di posizione invece che addentrarsi nella tematica proposta.

Come ho già detto direttamente ai proponenti la mozione, non faccio mie le preoccupazioni espresse dai colleghi di consiglio della Lega e non mi riconosco nell’approccio dell’Onorevole Sardone nell’affrontare queste problematiche, in quanto penso che siano tematiche complesse e non possono a parer mio essere gestite solo per decidere chi sono i buoni e chi sono i cattivi, chi è dalla parte giusta e chi da quella sbagliata della società, come peraltro ho sentito anche nei commenti a caldo di alcuni consiglieri delle Liste di Opposizione in Consiglio Comunale.

In casi come questi il metodo è fondamentale perché è funzionale allo scopo che si vuole ottenere. Metodo che ritengo sbagliato sia da chi ha sollevato questo problema sia da parte di chi, con leggerezza, ha posto a tema l’indossare il velo. Come ha dichiarato la consigliera comunale Valandro in un’intervista a Ordine e Libertà, il tema del velo indossato è argomento che va maneggiato con cura perché può essere simbolo di estrema libertà, così come di oppressione come dimostrano molti fatti di cronaca sia nazionale che internazionale.

Sono certo che ci sia stato da parte dell’Istituto un intento positivo nell’organizzare il corso pensato probabilmente per coinvolgere maggiormente le studentesse straniere che hanno bisogno di sentirsi partecipi della vita scolastica ma soprattutto sociale. E su questo va fatto a parer mio un ragionamento approfondito. Ho parlato espressamente di studentesse perché, chi minimamente si approccia a queste tematiche sa che esiste una profonda differenza di inserimento sociale tra i ragazzi e le ragazze provenienti da paesi in cui la maggior parte degli abitanti sono di fede musulmana. Le ragazze di seconda generazione vivono sulla propria pelle questo problema e purtroppo sono per la maggior parte ingabbiate nella ricerca di una identità e quindi di un equilibrio fra le origini e il futuro, fra la storia familiare e i progetti individuali, fra gli obblighi e i vincoli collettivi e i desideri personali per coloro che giungono qui da bambini o da ragazzi. Soprattutto le ragazze si trovano così a dover cercare di proporre, a questa situazione estremamente complessa e articolata, una propria soluzione. Si trovano a dover lottare tra tante posizioni diverse: la “Resistenza Culturale” dei propri genitori, il processo di “Assimilazione” alla società in cui vivono, un senso di “Marginalità” rispetto a una scelta tra l’affetto familiare e il fascino dell’emancipazione, e da ultimo il desiderio difficile di cercare di vivere questa situazione di doppia etnicità.

Parlare di seconda generazione ci fa capire quanto sia difficile definire chi sono questi ragazzi: non più immigrati, ma non ancora del tutto italiani. Infatti, anche se la definizione ufficiale sembra semplice – sono giovani, nati in Italia o arrivati qui da piccoli, che hanno almeno un genitore immigrato – questi ragazzi vivono la sfida nella sfida di dover affrontare insieme più compiti, cioè l’adolescenza e l’integrazione culturale.

Una persona che voglia esprimere la propria identità non mi spaventa. Che l’espressione della propria identità passi attraverso il proprio impegno sociale, culturale, religioso non mi spaventa.
Quindi non mi spaventa e non mi scandalizza che una ragazza di fede musulmana voglia raccontare di sé e della sua cultura dentro una scuola pur nel rispetto delle regole che la scuola impone.
Il problema vero è che i nostri ragazzi fanno sempre più fatica dire chi sono ed è questo che ci deve spaventare. Tanto più si ha consapevolezza di chi siamo e cosa vogliamo dalla vita, tanto più possiamo stare davanti a tutti, anche a chi ha posizioni che non capiamo o che fermamente pensiamo siano errate.
Se da un lato penso di aver chiarito la mia opinione, dall’altro non posso che biasimare chi ha presentato la mozione in consiglio comunale, cadendo nella dinamica che ha teoricamente osteggiato e cioè senza nessun intento di approfondire ma solo di decidere chi è dalla parte giusta e chi no, cosi da fomentare a sua volta un dibattito di posizione e non di contenuti. Prova di questo e ‘che una volta sollevato il clamore, la mozione è stata ritirata per appellarsi a un incontro pubblico (sotto campagna elettorale) in cui vedo solo un nuovo modo per cercare di creare contrapposizione.

Nel 1990, una sera, con l’allora coadiutore della Parrocchia di San Pietro, don Luciano Garlappi, ci trovammo per decidere che motto dare alla costituenda Associazione Paroikia, nata per far fronte alle problematiche che stavano nascendo con l’enorme afflusso di stranieri da diversi paesi. Erano appena sbarcate 20.000 persone provenienti dall’Albania al Porto di Bari, forse vi ricorderete quelle immagini. Decidemmo di indirizzarci sul motto “Tanti popoli un solo uomo” perché a prescindere dalla parte del mondo in cui siamo nati, nel profondo di ogni uomo c’è un desiderio di felicità cui tutti noi siamo portati. Personalmente mi interessa questo e non mi spaventano le diversità. Non si diventa uguali nella società negando che esistano le differenze. Le differenze esistono e vanno riconosciute ma non banalizzate neanche dicendo che il velo che portano alcune ragazze nelle nostre scuole ha la stessa valenza di quello che portava Katharine Hepburn. Nella nostra città ci sono persone che lavorano con passione e dedizione nell’assoluto silenzio e lontano dai riflettori per permettere che questa società non sia basata sul clamore del mostrare ma solo su un reale desiderio di bene comune e giustizia sociale.

Invito a guardare a queste persone per capire ed imparare a come stare di fronte a problemi complessi come quelli sollevati da questa polemica.

Michele Pusterla
Consigliere Comunale Lista Abbiategrasso Merita

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