E la chiamano estate.. Di Camilla Garavaglia

Magenta, i rom di via Del Carso e il mondo che va all’incontrario (senza Vannacci..)

"Il mondo all'incontrario" è il titolo ormai famoso del libro scritto dal Generale Roberto Vannacci e che tanto scandalo ha provocato nei mesi scorsi....

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Torna la prosa bohemien di Camilla Garavaglia, che ovviamente si ‘dedica’ ad una disamina su agosto e sull’estate. Buona lettura.

Anche 10 se leggi senza fretta: vino, politica, scrittura, cose

Quando, una settimana fa, ho parlato alla mia amica G. dell’intenzione di scrivere un’elegia dell’estate (aveva appena finito di correggere un mio articolo – illeggibile – su qualcosa tipo il controllo di gestione in cui confondevo i ricavi con i guadagni) lei mi ha risposto con estrema onestà:

Alla fine, mi ha spiegato cosa fosse il controllo di gestione e io non l’ho capito. Spiegare cosa fosse un’elegia era comunque inutile, perché tanto non la scriverò in versi.

E…state in città
L’estate è la stagione dell’infanzia.

Ho scritto qualche giorno fa nella mia precedente newsletter (sì, mi autocito):

C’è qualcosa che mi sfugge sempre, dell’estate. Un senso di assenza, coperto dal gran casino delle cicale e dei grilli. La sensazione che tutto stia per finire che ancora non è iniziata, nonostante le giornate siano lunghe e azzurre.

e ho scoperto che questa frase ha colpito molte persone, non perché fosse scritta particolarmente bene ma perché andava a pescare nel cesto dei ricordi di ciascuno.

Anche il Natale non è più quello di una volta, è vero: niente più nonni, niente più latte e biscotti a Babbo Natale (va beh, questo tipo di libagione in realtà non è mai stata una tradizione della mia famiglia quindi non è che proprio mi manchi) e soprattutto niente più messa di mezzanotte, magari con vin brulé e nevicata finale.

Niente però è cambiato tanto, per tutti, quanto l’estate.

Della scomparsa dell’estate ce ne siamo accorti dalle città non più deserte in agosto, dai negozi che restano aperti, dalle vacanze che durano (se va bene) una settimana e dalla gente che esce e rientra a scaglioni dal lavoro (riuscendoti a rompere alternativamente il cazzo sia le settimane prima di Ferragosto sia le settimane successive, senza soluzione di continuità). Soprattutto, ce ne siamo accorti dal fatto che non siamo più tenuti a seguire la programmazione estiva, antica e riposante, della tv: Netflix c’è sempre, anche nelle serate più calde dell’agosto più profondo.

Io non ricordo di avere mai provato il sentimento della nostalgia negli anni Novanta e negli anni Duemila, e sono quasi certa che anche i miei genitori e i miei nonni non avessero grandi ricordi su cui sospirare delle loro estati degli anni Settanta e Cinquanta. Sì, potevano sospirare sulla gioventù perduta, ma sulla gioventù perduta si sospira sempre anche se risale al periodo della guerra (meglio la guerra da giovani o la pace da ricchi? Io non ho dubbi al riguardo e nemmeno voi dovreste averne).

Oggi la nostalgia è invece un tema caro al marketing: le canzoni degli anni Sessanta – che ritornano, insieme ai loro cantautori, o l’ho sentita solo io la canzone di Rovazzi e Orietta Berti? -, i gelati degli anni Ottanta, i giochi degli anni Novanta e i vestiti in stile anni Duemila sono il filo del racconto di una stagione che non riusciamo più a inventare, sono le colonne su cui attaccare le storie di Instagram che ci ritraggono mentre mangiamo il pesce, mentre versiamo il vino davanti ai tramonti e mentre ci tuffiamo nel mare. 24 ore di tempo per colpire centinaia di sguardi distratti, per gridare a qualcuno (ma a chi, poi?) “io non mi sto annoiando!”.

L’estate del 1996 o giù di lì
Nell’estate del 1996 mi trascinavo come decine di altri bambini sul campo polveroso dell’oratorio di Ossona.

Cappello con visiera, marsupio (…) e Superga, pantaloncini e maglietta: 1500 lire di budget giornaliero, che poteva essere ripartito nei seguenti modi:

500 lire di focaccia + 500 lire di cocacola + 500 lire di caramelle (la mia combinazione preferita, mi dava tutti gli zuccheri necessari per fuggire dagli animatori che volevano farmi giocare a Pallaguerra)

1000 lire di pizza + 500 lire di cocacola (però se quel giorno la pizza era secca la delusione era tale che Proust spostati)

500 lire di focaccia + 500 lire di cocacola + 500 lire risparmiate per mangiare il Magnum da 2000 lire il giorno dopo (l’attesa del Magnum era essa stessa piacere, ma era un gelato enorme e non riuscivo mai a finirlo, quindi ogni volta mi maledivo per la scelta).

L’oratorio feriale era obiettivamente un inferno in terra per una bambina inetta nei giochi dei maschi e disadatta alle attività da femmine, ma i miei genitori lavoravano e i miei nonni non volevano avermi in mezzo ai coglioni anche in estate; inoltre, in oratorio si pregava: era quindi la soluzione obbligata per qualsiasi bambino di paese.

L’estate iniziava così: un mese e mezzo di oratorio feriale, mezzo mese di noia e compiti delle vacanze e poi agosto. 31 giorni di caldo, silenzio, noia e negozi chiusi.

“Odio l’estate” è la frase che dico più spesso da qualche anno, perché quando ero piccola l’estate mica la odiavo.

Negozi chiusi. Le pompe di benzina spenzolanti, quando ancora i benzinai potevano stare in centro paese, la cappa di caldo e i cartelli scritti a mano sulle serrande “chiusi dal 1 al 31 agosto”, qualche gatto sul selciato, cieli azzurri senza una nuvola per giorni, e giorni. Un pallone rotolava in piazza e non sapevi da dove veniva, lo calciavi per noia e tornava in qualche cortile, dove restava immobile senza nemmeno la sua ombra perché nell’agosto degli anni Novanta era sempre mezzogiorno. Partivi per il mare, di solito Liguria, e lì restavi.

L’estate è finita quando le città hanno smesso di essere chiuse in agosto.

La prima Pro loco che ha titolato, con un guizzo di fantasia, gli eventi da agosto in paese “E…state in città” ha decretato la morte del silenzio, della noia e dell’abbandono del mese più introspettivo dell’anno. Sono passati almeno 25 anni da allora e ancora le Pro loco, tutte le Pro loco, stampano imperterrite i loro bravi volantini ricchi di eventi e concerti: “E…state in città!”.

E dove stiamo, noi?

In città. C’è musica, le lavanderie sono aperte, i ristoranti pure, le pizzerie d’asporto non parliamone. Non si chiude, mica che poi si perdono soldi, non ci si ferma e non si va al mare per 30 giorni, dall’1 al 31, ad annoiarci sulla sabbia e a fare castelli per aria.

Niente più amori estivi. E come si fa? Nel 1996 tu ragazzino conoscevi una bambina al mare, la prima settimana giravi attorno al suo ombrellone, la seconda la invitavi a giocare al biliardino (e poi la facevi vincere), la terza ti dichiaravi sulle giostre la sera e alla quarta ti lasciavi con promesse di lettere e con cartoline con la scritta “Alla prossima estate”. In 7 giorni, ora che fai? Fai che ti aggiungi su WhatsApp, “magari poi ti guardi le mie storie”.

A costo di sembrare quella vecchia che “era meglio prima”, io voglio dire che un Ferragosto che ruba gli amori estivi ai bambini e ai ragazzi è un Ferragosto che non sa più d’estate. Un Ferragosto che è passato dal Il Sorpasso di Gassman (ambientato nel Ferragosto del 1962, appunto) alla lavanderia cinese aperta senza stupore e senza rivoluzioni in piazza.

A costo di sembrare la nostalgica che sono, io voglio dire che l’estate non era poi tanto male prima che la facessero diventare questa cosa qua.

Una competizione dove chi vince davvero è chi riesce ancora a sottrarsi al gioco. Cercando il sole di mezzogiorno negli angoli rimasti miracolosamente deserti, inseguendo palloni e gatti che non hanno paura di annoiarsi.

I miei genitori in vacanza negli anni Ottanta. Non ho il permesso di usare questa foto.
Per fortuna, l’estate è quasi finita.

Buon (Ferr)agosto, o quel che ne rimane, e non fate gite fuori porta perché è una roba fascista. (si scherza)

Camilla Garavaglia

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