La breva, in discesa dai contrafforti delle Alpi, stendeva le migliaia di bandiere rosse agganciate alle impennate della cancellata di Mirafiori, quel giorno, ora decenni, era un vivere la ‘Cavalleria rossa’ di Kazimir Malevich.
No, oggi no. Oggi la pioviggine distende il freddo a sudario. Guardate laggiù, dove svolta il marciepiedi lungo il corso Giovanni Agnelli. C’è un solo uomo, il passo metodico del camminatore. Ecco, si ferma, la sua mano aggancia una stecca opaca della cancellata. Le dita, ad osservare, sono tatuate dal lavoro, l’unghia dell’indice destro cremata da una saldatura. Avvicina il volto. Scruta. Nessuno. Non c’è nessuno. Volta il capo per auscultare. Silenzio. Il silenzio fossile di un cimitero di campagna oltre l’imbrunire, quand’anche il grillo tace. La grande fabbrica, morta. Se glielo si domandasse: Giuseppe Serratore. Ottant’anni. Calabrese, trapiantato ragazzo bracciante agricolo a Torino, anni Sessanta. Uno tra i mille e mille e mille. Operaio semplice, poi attrezzista reparto motori. Cammina lungo il marciapiedi deserto. Ha rivoltato il filetto sdrucito delle maniche del pastrano invernale. Lo so, se Anna fosse ancora in vita sarebbe finito da qualche anno nel sacco degli abiti da buttare. O l’avrebbe cucito con cura, inserendo una passamaneria a contrasto da farlo sembrare elegante.
Ma non c’è. No. Non c’è. Neppure Giulia e sua nipotina Arianna e suo figlio Salvatore, l’ingegnere, ci sono più. In Germania stanno. A Stoccarda, già suo figlio lavora in Porsche. Prima stava a Grugliasco, in Maserati. Lavorava allo sviluppo, il Salvatore ingegnere meccanico al politecnico di Torino e assunto in Fiat il giorno dopo la laurea. Se n’è andato tre giorni dopo il funerale dell’americano. Ci ha visto lungo. In Porsche l’han preso al volo, anche la casa per un anno gli hanno trovato. l’americano scendeva in reparto in maglioncino, sedeva a un banco da otto cilindri e fumava una Marlboro, teneva la sigaretta a coppa sigillando l’origine contadina. Si faceva spiegare tutto. Diceva che era come veder nascere una creatura, un travaglio. Maneggiò una chiave dinamometrica a chiusura di una bancata, si pulì le mani con lo straccio e disse che nella prossima vita avrebbe fatto motori. Non ci sarà una prossima vita, di motori non se ne fanno più, gli fa eco Giuseppe mentre cammina lungo corso Giovanni Agnelli. Ancora l’americano, entusiasta, chiese a Salvatore la differenza tra l’Otto Maserati e l’otto Ford, il coyote. Beh, disse Salvatore, noi siamo sempre pionieri. Sergio Marchionne annuì, è tutto qui, aveva detto. Ed è tutta la differenza. Quando aveva preso a star male s’era fatto vivo un ragazzo, poco più, pallido, esile, camminava inamidato. Non guardava intorno. Il sorriso stampato nella cera. Salvatore ed un altro chiamarono in Germania il giorno stesso. Poi glielo disse, papà, qui tra qualche anno si chiude. Se il buongiorno si vede dal mattino è già sera. Questa è gente senza storia. E se n’è andato in Germania.
In sei anni tutto finito. La grande fabbrica, ch’era cattedrale del lavoro, fasciata d’aria ferma che odora d’inceso. Giuseppe Serratore traversa il Corso, va al suo caffè da operaio, siede e prende un decaffeinato macchiato caldo. Guarda la scritta sulla vetrina, vendesi licenza e immobile. Facevano duemila caffè al giorno, oggi se arrivano a cinquanta è tanta roba. Vendesi, dappertutto. Anche Giuseppe se ne va. Torna in Calabria, alla terra di suo padre, che fu di suo nonno e così finché la memoria si perde smarrita. Il suo piccolo appartamento l’ha comprato un rumeno che vende Ford. Torino è piena di Ford e auto giapponesi. Lui torna in Calabria alla terra. L’uomo è terra. E torna verso casa. È solo un vecchio. Tu sai fare le zampe alle mosche, gli aveva detto Vittorio Ghidella, l’ingegnere. Ma ora, che importa. Guardatelo, cammina lungo il corso rasente la grande fabbrica dipinta nella deformante prospettiva di De Chirico dove ogni uomo scompare