Per il bene del Paese, la Lega ritorni al federalismo. A cura di Domenico Bonvegna

"Abbandonata la politica della secessione, alla Lega spettava il compito di portare il federalismo nella cultura e nelle istituzioni. A un certo momento della sua storia ha smesso di interpretare questo ruolo per dedicarsi alla ricerca del consenso a tutti i costi..."

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Il 12 aprile scorso la Lega ha compiuto quarant’anni di attività politica, l’anniversario è stato festeggiato un po’ in sordina. Soprattutto è stato celebrato separatamente dal fondatore, Umberto Bossi, nella sua Gemonio, con un po’ di antichi militanti e a Varese, pochi giorni dopo, dall’attuale segretario della Lega, Matteo Salvini assente polemicamente proprio Bossi che l’ha fondata.

Marco Invernizzi ha provato a ripercorrere la storia del partito più longevo del Parlamento italiano (40 anni di Lega, 22.4.24, alleanzacattolica.org) E in particolare ha analizzato la sua crisi. La Lega negli anni ’80 è stato il primo post ideologico, cioè il primo partito ad anticipare la fine delle ideologie che avevano caratterizzato il ‘900. Essa nasce come un partito territoriale dal legame fra Bossi e Bruno Salvadori (1942-1980), un dirigente dell’Union Valdôtaine.

Bossi riprende il suo percorso intellettuale e politico sostenendo la battaglia per l’autonomia dei popoli dell’arco alpino, ponendo così all’attenzione della politica la cosiddetta “questione settentrionale”. Egli contesta un punto importante della storia italiana: il modello di Stato centralista, scelto nel 1861 imitando la Francia e mantenuto sia dalla monarchia sabauda che durante il regime fascista e la Prima Repubblica. L’Unità d’Italia avrebbe potuto essere conseguita in altri modi, ma le forze politiche che la perseguirono scelsero due punti fermi: il centralismo dello Stato e l’ostilità alla Chiesa, in particolare al Pontefice romano.

Così, accanto alla Questione cattolica ci fu sempre una questione relativa all’assetto dello Stato, da cui nacquero sia la Questione del Meridione, occupato e umiliato dall’invasione del Regno di Sardegna, sia la Questione settentrionale, emersa nel tempo, soprattutto dopo i grandi spostamenti della popolazione negli Anni Sessanta del ‘900. E’ un tema toccato dal libro (un intero capitolo) che ho letto in questi giorni, “L’invenzione della Padania. La rinascita della comunità più antica d’Europa”. Autore, Gilberto Oneto, Foedus Editore (Bergamo, 1997)

“Il percorso dell’unificazione politica della penisola italiana è infatti passato attraverso una doppia forzatura: si è prima inventata una Nazione per giustificare la formazione di uno Stato, poi si è utilizzato lo Stato per cercare di formare una Nazione che non c’era mai stata”. Sostanzialmente il processo di unificazione, non è stato altro che “il processo di crescita imperialista di un piccolo Stato (il Piemonte sabaudo) che è diventato grande fagogitando altre entità sostanzialmente estranee[…]”.

Oneto sostiene che sono state messe insieme delle realtà estremamente eterogenee. “Gli elementi di comunanza erano essenzialmente quasi solo di tipo geografico”, come del resto aveva brutalmente, ma lucidamente affermato il conte Metternich. Altro elemento di comunanza poteva essere la lingua, ma la parlava solo una piccolissima minoranza. La maggior parte parlava il cosiddetto “dialetto”, che poi erano delle lingue come il Veneto, il Piemontese, il Napoletano e soprattutto il francese, naturalmente tra i letterati e nobili piemontesi. “Per il resto tutto divideva i popoli della penisola: la diversa origine etnica, la storia, la cultura”. Tuttavia, anche Oneto è convinto che,“l’Italia è nata ‘contro’ entità ritenute nemiche (l’Austria, la Chiesa)”.

Del resto c’era la necessità di “fare gli italiani”, pertanto, “non si è trovato di meglio che di forgiarli ‘col ferro e col fuoco’, nel vivo dell’azione, nel crogiolo delle guerre e delle battaglie. L’unità– insiste Oneto –è stata perseguita nelle caserme in disastrose avventure belliche si è perciò principalmente espressa nella funesta retorica dei sacrari, dei monumenti ai caduti e dei cimiteri di guerra”.

In pratica alla retorica patriottica unitaria, si mescola “una cupa atmosfera mortifera”. Basta osservare l’inno di Mameli, per non parlare del patriottico macello della Prima Guerra mondiale (con i popoli italiani finalmente unificati nelle trincee e nei cimiteri), per poi finire ai lugubri simboli fascisti.
Purtroppo quando fu raggiunta l’unità del Paese, venne abbandonata ogni visione federalista, che peraltro era presente in quasi tutti i progetti di unificazione. Alla fine fu costruito “uno stato giacobino-prefettizio e iper-centralista che fosse in grado di tenere assieme un paese che non voleva stare assieme”.

Chi conosce la Storia sa come i popoli meridionali hanno dimostrato diversi sintomi di insofferenza a cominciare dal cosiddetto “Brigantaggio”, al vistoso fenomeno delle diserzioni durante la Grande Guerra. Per porre rimedio alla “gravosa cappa del centralismo unitario”, i migliori pensatori politici hanno proposto rimedi di tipo federalista. Ma a porre una “lastra tombale sulle legittime aspirazioni di autonomia dei popoli italiani”, ci ha pensato, “il fascismo che ha portato alle estreme conseguenze la finzione ideologica di Nazione italiana […]imponendola con ogni sorta di repressione violenta e di negazione ottusa di ogni diversità”.

Il fascismo ha continuato a “fare gli italiani”, si è riscritto il loro passato, puntando tutto sull’Impero Romano. Praticamente “tutto quello che è compreso fra la caduta di Roma e il Risorgimento, cioè fra due periodi di violenze militari”. Per fortuna secondo Oneto non è bastata “l’opera di oppressione culturale esercitata nelle scuole e nelle caserme né l’azione corrosiva e omologante dei più moderni e ossessionanti media (soprattutto della televisione) a cancellare le reali strutture culturali dei popoli d’Italia che resistono ai tremendi attacchi di’pulizia culturale’”.

Nonostante questo sono nate iniziative, movimenti autonomisti, prima legati alle minoranze tradizionali (Tirolesi, Siciliani, Sardi) e poi la Lega Veneta e negli anni ’80 la Lega Nord di Umberto Bossi, che divenne una sorta di sindacato del territorio, radicato nelle campagne del Veneto, e nelle valli lombarde, in particolare nel Varesotto.

Riprendo il racconto di Invernizzi; la Lega “sfruttò la crisi della Prima Repubblica e lo sfaldamento di tutti i partiti postbellici, costretti a cambiare profondamente per adeguarsi al nuovo mondo che stava nascendo”. Ottenne risultati politici importanti, ma non poteva governare l’Italia e non aveva la forza per separare il Nord dal resto del Paese. Era una forza politica “nuova”, “perché andava oltre la destra e la sinistra, inglobando militanti provenienti da entrambi gli schieramenti, ed era efficace e attrattiva, perché toccava una questione sentita in un tempo di passaggio dalle appartenenze ideologiche al relativismo nichilista. Essa offrì così una speranza a molti, basata sull’identità locale”.

Il libro di Oneto, ormai scritto più di vent’anni fa, è la prova che in molti credevano nell’aver ritrovata, riscoperta, la Padania, una specie “Terra di Mezzo”, a cui in molti credevano e si identificavano. Tuttavia il movimento di Bossi, diventa sempre più un partito che rischia di isolarsi e di non incidere a livello politico, si allea con Berlusconi e vince le elezioni del 1994. Successivamente dal 1996 la Lega rimane fedele al progetto politico di Centro-destra, sia con Bossi, che con Maroni e infine Salvini.

“Quest’ultimo, però, le ha cambiato fisionomia, trasformandola in un partito sempre più nazionalista e cercando di impiantarla anche al Sud, senza peraltro risultati positivi. Salvini raccolse la Lega al 4% e da segretario, in soli sei anni, la portò al 34% delle elezioni europee del 2019. Ma era un consenso effimero, non radicato né nei valori né sul territorio e si sciolse come altri prima di lui, in primis Matteo Renzi”.

La Lega oggi è in evidente difficoltà, priva di un consenso importante, ma soprattutto di una fisionomia politica specifica. Possiamo affermare che è in stato confusionale, soprattutto sui temi eticamente sensibili. Tuttavia, il partito, scrive Invernizzi, “ha avuto un ruolo importante nella storia italiana successiva al 1989 e anche all’interno del centro-destra, contribuendo a mantenere viva l’attenzione verso uno degli errori più gravi del Risorgimento e della successiva storia nazionale.

Abbandonata la politica della secessione, alla Lega spettava il compito di portare il federalismo nella cultura e nelle istituzioni. A un certo momento della sua storia ha smesso di interpretare questo ruolo per dedicarsi alla ricerca del consenso a tutti i costi. Sarebbe importante, per il bene del Paese, che riprendesse il suo vero ruolo”.

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