Ancora su Gigi Riva, campione del popolo e dall’amore viscerale per una Terra – di Teo Parini

Storia di una 'benedetta ostinazione'

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Ci sono uomini tutti d’un pezzo e uomini senza prezzo. Oppure quelli come lui, che sono entrambe le cose. Perché il miliardo di vecchie lire messo sul piatto dalla famiglia Agnelli per assicurarsi i suoi gol non gli fece né caldo né freddo. Suona strano dirlo oggi, con i giocatori che all’apice della carriera si prostituiscono professionalmente per ingurgitare camionate di petrodollari, ma Luigi Riva detto Gigi e universalmente conosciuto come Rombo di Tuono, grazie all’inesausta fantasia giornalistica di Brera che ne cantò le imprese cavalleresche, ha preferito l’amore viscerale del suo popolo adottivo, quello sardo, a qualunque altro tipo di effimera soddisfazione. Così, al Gianni, quello delle automobili più che al giornalista, disse semplicemente “no grazie”. Che poi, sportivamente parlando, vuoi mettere prendere per mano il Cagliari e issarlo sul tetto d’Italia dove nessuno, nemmeno i tifosi più accaniti, avesse mai osato sperare di arrivare? Significa essere depositari di una storia meravigliosa. E già che c’era, un bel no anche a Moratti, l’Angelo, tanto per ribadire il concetto.

Qui sto e qui resto. Sono gli anni Settanta e, più che un altro periodo storico, pare essere un altro mondo. La sua benedetta ostinazione nel voler essere bandiera di un popolo che lo ha accolto con tutto il calore di un’isola felice, facendogli dimenticare l’infanzia poverissima e i suoi tormenti, ricorda quella di un altro gigante dello sport di quegli anni. Teofilo Stevenson, uno dei pesi massimi più forti di ogni epoca, mai cedette alle lusinghe del professionismo che, per la boxe, avrebbe significato una pioggia di danaro attraversando la lingua di oceano che separa L’Avana da Miami.

“Cos’è un milione di dollari in confronto all’amore di nove milioni di cubani?”, disse un giorno. Infatti, a Cuba nacque e a Cuba morì, da eroe. Imperituro, perché non c’è palestra popolare in tutta l’isola caraibica che ancora oggi non si ispiri al celebre predecessore. Ecco, Gigi è stato forgiato con lo stesso pregiato materiale. Che verrebbe da definire acciaio per come interpretò il ruolo del centravanti di sfondamento, come si diceva una volta. Così, non si potrà che pensare a lui ogni qualvolta un calcio mancino finirà per gonfiare la rete di un campetto di periferia. Il piede di Gigi come il destro di Teofilo, abbacinanti icone di riscatto sociale.

Ma del Riva calciatore è troppo facile parlare, lo hanno già fatto in molti. Qui ci limitiamo a ricordare che in un calcio fatto da difensori valorosi nel francobollarsi alle caviglie avversarie, arcigni per usare un eufemismo e, come non bastasse, tutelati dalle direzioni arbitrali oltre che dalla pionieristica e traballante tecnologia video, tutto a scapito proprio degli attaccanti, è riuscito ad essere imprendibile. Palla a Riva, palla in rete. Trentacinque gol in quarantadue partite con la maglia azzurra, tanto per dirne una, incluso quello siglato con un tuffo imperioso ad incornare il pallone che gli valse la marcatura forse più iconica, quella ai danni della fu DDR, la Germania che stava al di là del muro. Manifesto di furia agonistica, atletismo e potenza ancestrale.

Tuttavia, più che il calciatore è l’uomo che ci interessa ricordare e che ci mancherà. Perché Gigi fu innanzitutto uomo della gente. Più che sulle passerelle modaiole ascoltando le sirene della notorietà, infatti, lo si poteva trovare in mezzo ai lavoratori del Sulcis, la famigerata miniera dei sardi. A portare solidarietà e vicinanza a quelli meno fortunati, quelli che fanno del sudore un motivo di ricchezza per tutto il paese. Perché la povertà e la fatica nel mettere insieme pranzo e cena, tutte cose che Gigi conosceva assai bene, certi uomini speciali non le dimenticano mai, nemmeno quando potrebbero avere il mondo ai loro piedi. Quindi, osservando con attenzione vecchie fotografie dell’epoca, capita di riconoscere, mischiato tra mille altri volti di lavoratori, quello di Riva. La solidarietà che ci piace, quella dell’esserci con discrezione e non dell’apparire.

Rombo di Tuono ci ha tenuto ad essere coerente fino alla fine. Un no è sempre un no. Il cuore, a più riprese motivo di tribolazione, lo ha abbandonato, non prima di avergli suggerito una scappatoia, forse l’ultima. “Operarmi? No, grazie”, così se n’è andato, assestando l’ultimo calcio ai riflettori che mai lo hanno ossessionato. Nato a Leggiuno, sul lago Maggiore, da mamma casalinga e papà sarto, per Gigi l’adolescenza non fu certo una passeggiata di salute. Orfano troppo in fretta, spedito in collegio e accudito dalla sorella Fausta, Gigi è nel Legnano che cominciò a fare intravedere le sue doti. È proprio il Cagliari a mettere sul piatto il primo contratto da professionista e, con tutte le preoccupazioni del caso, fu così che volò in Sardegna.

L’approdo fu traumatico, tanto che avrà modo più volte di raccontare negli anni a venire l’immediato desiderio di tornarsene a casa, grande fu lo spavento di un ragazzino catapultato altrove, dinnanzi al deserto anche fisico che lo accolse. I pranzi con i pescatori, il carattere schivo e riservato della gente comune che tanto gli somigliava, le lunghe passeggiate al Poetto, la spiaggia cittadina, furono però una folgorazione. Aveva trovato la sua dimensione, la sua casa, i suoi affetti. Il resto è storia.

Insomma, a Gigi Riva dobbiamo tutti molto. Come uomo di sport, uno sport che purtroppo non c’è più, e, ciò che più conta, come depositario del valore più alto: l’umanità. Allora, ciao Rombo di Tuono, è stato davvero un onore fare un pezzo di strada insieme.

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