Il calcio operaista e pane salame di Carletto Mazzone- ammazza le risate che se semo fatti…

Magenta, i rom di via Del Carso e il mondo che va all’incontrario (senza Vannacci..)

"Il mondo all'incontrario" è il titolo ormai famoso del libro scritto dal Generale Roberto Vannacci e che tanto scandalo ha provocato nei mesi scorsi....

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A beneficio di chi non c’era. Le partite si disputavano tutte quante la domenica. Primo pomeriggio, in estate; un’ora prima, poco dopo il pranzo, nei mesi in cui il buio scendeva presto. La pay per view era un mostro che ancora non si sapeva quando e soprattutto quanto avrebbe modificato le abitudini domestiche, ragion per cui, al di là dei pochi fortunati aficionados presenti allo stadio, la radiolina incollata all’orecchio era l’unico modo per conoscere i risultati in diretta, grazie alle voci divenute ben presto amiche di cronisti geniali come Enrico Ameri, Sandro Ciotti e colleghi vari.

Voci e volti altrettanto familiari, magistralmente diretti da Paolo Valenti in studio a Roma, raccontavano con l’ausilio di qualche minuto di immagini montate in fretta e furia i gol di giornata in quella che oggi definiremmo l’ora dell’aperitivo e che, al tempo, altro non era che il momento di Novantesimo minuto; trasmissione televisiva ineguagliabile, un po’ perché senza alternative e molto perché non aveva la folle pretesa odierna di mescolare sport e intrattenimento di dubbio gusto, dedicandosi con misura ed ironia solo al primo.

Tutto ciò, ha rappresentato per anni il contesto di un gioco, quello del calcio, che ha potuto godere a lungo di una riconoscibile dignità, prima che gli eventi storici nefasti che hanno brutalizzato innanzitutto la società in cui viviamo facessero brandelli anche dello sport che più di tutti fu popolare proprio perché giocato e amato dal popolo. Sembra impossibile spiegarlo oggi ma il gioco del pallone fu davvero uno sport semplice. Undici giocatori numerati in ordine crescente per posizione sul campo, da uno a undici. In altre parole, a numero uguale corrispondeva ruolo uguale. Così, l’uno era il portiere, il due il terzino destro e così via fino al nove, l’attaccante per antonomasia. Facile, anche perché a nessun allenatore dell’epoca sarebbe mai passato per la mente di inventarsi chissà cosa, magari di stravolgere attitudini personali e collaudate consuetudini. Quello con i guanti e i piedi così così finiva per preservare la propria porta; il mancino stava a sinistra e gli era chiesto solo di pennellare traversoni con il suo arto preferito; quello più giocoliere di tutti, invece, stazionava tra le linee di centrocampo e attacco per fare correre con fantasia il pallone che, a differenza dell’uomo, non ha mai sudato; infine, il marcantonio di turno, mutuando un termine caro alla pallanuoto, assurgeva al ruolo di centroboa. Quest’ultimo, con le spalle larghe come un armadio a due ante, che saliva a spizzare palle in caduta libera dal cielo, calamitando i gomiti dei difensori avversari e facendo valere i propri. Poche cose, fatte bene. È la disciplina che prende anima e forma in ogni angolo della strada, colore sgargiante delle periferie ingrigite e speranza di riscatto sociale per i meno fortunati. Quel calcio che fu il sogno puro di bambini che su un campo spelacchiato e con due felpe buttate in terra a fare da porta si sentivano tanti Hugo Sanchez al Bernabeu più che fotomodelli vanitosi ricoperti dai petroldollari di qualche sceicco.

Carletto Mazzone, di quel mondo pane e salame che non c’è più, è stato un’icona, svolgendo con spirito operaio e battagliero, ma senza mai accantonare l’umiltà dei forti, la professione di allenatore segnando un’epoca che ora, all’indomani della sua scomparsa, ci sembra ancora più lontana. Sincero fino al midollo, i meno sensibili lo hanno sempre trattato con sufficienza, spesso con scherno, alla stregua di una macchietta. Lo snobismo degli intellettuali radical chic di una certa corrente sociopolitica, sempre pronti a deriderlo dall’alto dei loro salotti vellutati per un congiuntivo sbagliato o per un’esternazione poco istituzionale che, al contrario, aveva il pregio di ridicolizzare il politically correct che un po’ alla volta ha finito per deturpare le nostre più autentiche forme espressive.

Mazzone era così, per come si mostrava. Anzi, per sua stessa ammissione, erano due i Mazzone a convivere nello stesso corpo contadino, mani grosse e cervello fino: quello della domenica pomeriggio e quello del resto della settimana. Viscerale e sanguigno, il primo; amabile, amico della porta accanto, il secondo. Se fuoriclasse senza tempo oggi lo ricordano con affetto e immutata stima professionale – si pensi a Baggio, a Totti o a Guardiola, tutti uomini che nonostante qualità calcistiche extra terrene non hanno mai nascosto la sincera riconoscenza per un uomo che ha contribuito in maniera decisiva alla loro immortalità sportiva – è perché Carletto, misurando con precisione certosina competenza e semplicità, ha sublimato il mestiere dell’allenatore quale strumento di valorizzazione del materiale umano disponibile. Senza manie di protagonismo peraltro in rapida diffusione, Mazzone ha incarnato il principio per il quale è solo mettendo i giocatori nelle condizioni di fornire la loro miglior versione possibile che si costruisce un gruppo solido e, nei limiti del possibile, vincente.

“Nun ‘amo vinto gnente, però ammazza le risate che se semo fatti”, amava ripetere con la serenità di chi riesce a non prendersi mai troppo sul serio. Recordman di panchine in serie A, in un mondo che non regala niente a nessuno, Carletto Mazzone, in realtà, ci ha fatto vincere molto. Perché, nella vita e di riflesso nello sport, chi fa del suo meglio senza lesinare sudore ed energie non perde mai. Grazie Carlé, per avercelo sempre ricordato alla tua maniera.

Fai buon viaggio.

Teo Parini

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