Il colonnello Lobanovski e il calcio come declinazione del socialismo, in bianco e nero- di Teo Parini

In ricordo del leggendario allenatore della Dinamo Kiev, icona di un mondo sportivo che non c'è più

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Quanto conta il talento per diventare un calciatore affermato? Se la risposta alla consueta domanda è “poco”, due sono le possibilità concrete: ha poco senso ciò che si sta dicendo, cosa molto probabile, oppure si è Valeri Lobanovski, un unicum. Detto il Colonnello per aver servito fedelmente l’Armata Rossa in tempo di Guerra Fredda, oggi Valeri avrebbe compiuto 85 anni se solo un malore non l’avesse colto anzitempo nel suo habitat naturale, il campo di calcio. In panchina, per la precisione, dove terminata la parentesi da giocatore ha costruito, con un mix fatto di rigore militare, genialità e innovazione tecnico-scientifica, un mito sportivo senza tempo. Così, nella primavera del 2002, a Zaporoggia, la città della centrale nucleare nonché simbolo del conflitto ucraino in essere, lascia un mondo, quello del calcio, che ha in lui un vero e proprio spartiacque.

Con un prima e soprattutto un dopo che a definire solo diverso viene quasi da sorridere, tanto fu epocale l’approccio di Lobanovski alla professione dell’allenatore e la rivoluzione tattica copernicana che ne scaturì. E pensare che se ne andò via da Kiev sbattendo la porta perché in aperto contrasto con tale Maslov, l’allenatore, perché imbrigliato proprio in quegli schemi cervellotici ma ancora embrionali e non del tutto funzionali allo scopo che anni dopo lui stesso riuscirà, appunto, a sublimare. Appese le scarpe al chiodo non ancora trentenne, la sua avventura dall’altra parte della scrivania cominciò a libro paga del Dnipro, compagine fuori dal giro che conta ma che ambiva ad entrarci. A quel periodo, si parla della fine degli anni ’60, risale il primo capovolgimento epocale. Valeri pretese di disporre di un prototipo di computer, sebbene ancora uno strumento rudimentale, e degli scienziati in grado di dargli in pasto i dati da elaborare. La richiesta, al tempo niente affatto compresa, fu esaudita e, per la prima volta, le dinamiche calcistiche iniziarono a passare per l’intelligenza di una macchina in affiancamento a quella dell’uomo. Manco a dirlo, il Dnipro fece ritorno nella massima divisione sovietica e per lui si spalancarono le porte della Dinamo Kiev, un ritorno in grande stile, dalla porta principale.

Se il computer analizzava dati e situazioni, il resto dell’allenamento era qualcosa spinto ai limiti delle forze umane. Andriy Shevchenko – con l’altro pallone d’oro Blokhin, il calciatore più forte passato per le cure del Colonnello – diverse stagioni più tardi lasciò esterrefatto l’establishment milanista quando, al termine di una sessione di allenamento e con i compagni sfiniti già in pellegrinaggio verso le docce, attaccò a correre e a fare allunghi come un forsennato. Per uno cresciuto a Kiev prima del 2002, infatti, allenarsi assumeva un significato sostanzialmente diverso da quello che si era soliti attribuire alle nostre latitudini calcistiche. Ciò per rendere l’idea di quanto, per Lobanovski, la risposta alla domanda iniziale fu davvero meritoria di quella risposta solo apparentemente provocatoria. Lobanovski, infatti, è l’archetipo più emblematico della forza del lavoro.
La Dinamo Kiev, lo si disse spesso, fu un mosaico proveniente dal futuro capace di scrivere la storia anche fuori dal contesto nazionale.

Due Coppe delle Coppe, per chi si ricorda la defunta manifestazione, e una Supercoppa europea, messa in bacheca ai danni di uno dei più dominanti Bayern di Monaco di sempre. Che prima o poi avrebbe finito per allenare la nazionale dell’URSS era scontato e solo il gol più bello della storia del soccer, quello di Van Basten nella finale degli Europei del 1988, impedì a Valeri e al suo paese di vincere un trofeo che, per la qualità di gioco espressa, fu delittuoso vederlo finire in mani diverse dalle sue, con tutto il rispetto per l’Olanda dei fenomeni che in quel frangente ebbe la meglio. Alla base dei successi, il principio quasi marxista della superiorità del collettivo sul singolo. Singolo che, tuttavia, una volta sopravvissuto fisicamente alle sessioni di allenamento, e quindi ritenuto arruolabile dal Colonnello, avrebbe dovuto diventare quello che oggi definiremmo “universale”, che banalmente significava saper fare tutto e in ogni zona di campo. L’abolizione dei ruoli, il vero sogno di Lobanovski. Il perché è esemplificato da una delle sue espressioni più ricorrenti: la grandezza di un calciatore si misura per quanto è in grado di fare in campo senza palla tra i piedi. Principio che richiama un po’ il cosiddetto ‘sostegno’ del rugby, quindi immolarsi per consentire al compagno di correre. Se non è marxismo questo.

Laureato in ingegneria, Lobanovski sfruttò bene anche la dimestichezza con l’algebra e la geometria per fare di una disciplina talvolta anarchica e affetta da improvvisazione un unisono, appunto, scientifico per il quale valesse il principio secondo cui la somma del rendimento degli undici giocatori in campo fosse sempre minore dell’efficienza del sistema organizzato, composto ed interpretato dagli stessi undici. L’epopea del Colonnello, inevitabilmente, andò a braccetto con quella dell’URSS, tanto che il colpo di grazia inferto alla madre patria da Gorbaciov, di fatto, fu fatale anche al vate che si trovò a fronteggiare il massiccio esodo di talenti di casa attratti dalle chimere occidentali, chimere alle quali finì per cadere lui stesso prima di un precipitoso ritorno a Kiev.

Il canto del cigno, l’ultimo suo capolavoro sportivo, fu la semifinale raggiunta, ancora con la Dinamo, nell’edizione della Champions League del 1999. Trascinata da Shevchenko, uno che universale lo fu realmente, la campagna trionfale fu interrotta a fatica dal solito Bayern di Monaco e, soprattutto, dal budget di quest’ultimo. Il Colonnello morirà solo poco tempo dopo.
Oggi, dell’antesignano per eccellenza del calcio moderno, oltre alle sue idee rivoluzionarie e al ricordo della meravigliosa storia dell’utopia calcistica sovietica di quegli anni, resta una statua, eretta nei dintorni dello stadio che porta il suo nome, ad imperitura memoria. Come? Seduto in panchina, ovviamente, mentre guarda soddisfatto un gioco che ha trovato il modo di governare alla stregua di una partita a scacchi. Anzi, di una campagna militare.
Auguri, Colonnello.

■ Prima Pagina

Ultim'ora

Altre Storie

Pubblicità

Ultim'ora nazionali

Altre Storie

Pubblicità

contenuti dei partner