Con quella faccia un po’ così.. l’ultimo tango tennistico di Adrian Mannarino- di Teo Parini

È la presa della rete dei suoi avi rivoluzionari che conquistarono la Bastiglia. Movimenti corretti, tempismo, senso della posizione e, infine, gran bel gioco di volo condito da un tocco raffinato

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Il problema, se possiamo definirlo tale per uno come lui, è che fatica terribilmente a trovare colleghi disposti ad allenarsi insieme. “Sono tutti così ossessionati dalla perfezione”, dice. Lui, Adrian Mannarino, che del concetto di perfezione, ma anche di ossessione per la professione del tennista, è la antitesi, plastica che più non si può. Così, la sessione di palleggio prima del match di terzo turno degli Australian Open in corso di svolgimento la fa, per mancanza di alternative, col suo allenatore che non è proprio la stessa cosa. Dura poco, per giunta, perché la giustificazione e che “di questi tempi ho già giocato abbastanza”, prima di tornarsene negli spogliatoi con la maglietta appena un po’ stropicciata.

A vederlo gestire il tritacarne di uno Slam, quindi, non gli si darebbero due lire e, invece benché sua Maestà la professionalità Djokovic ne abbia brutalmente interrotto la corsa, Mannarino oltre a confermare la Top 20 del ranking mondiale timbra anche un onorevole ottavo di finale Slam che, a trentacinque anni suonati, non è proprio una cosa da poco. Così, senza prendersi mai troppo sul serio. Per quello rivolgersi a uno come Sinner, al transalpino è saggio chiedere altre cose. L’estro e l’imprevedibilità, per esempio, sul campo ma anche fuori. Peraltro, se non fosse che Adrian si aggira per il circus ormai da un pezzo e, quindi, il suo mestiere, quello del tennista, sia fuori discussione, la sua immagine darebbe adito a più di un dubbio. Così, mentre i suoi rivali sfilano agghindati di tutto punto con i loghi dei magliai bene in vista, lui, che sponsor non ne ha, si presenta sul ground che sembra un doppista della domenica mattina al dopolavoro ferroviario. T-shirt girocollo monocolore di due taglie più grande, pantaloncini tendenti all’ascellare, parafrasando una celebre descrizione fantozziana, scarpe demodé e aria stralunata.

Di chi, una volta nel match, comincia a litigare con l’attrezzo che non ne vuole sapere di assecondarlo. A proposito, l’attrezzo. Con la tecnologia esacerbata all’inverosimile che fa sì che una racchetta sia già vecchia ancor prima di essere presentata al mercato e con fior di tecnici intenti a studiare come rendere ancora più performanti i materiali, Mannarino, sempre nell’ottavo di finale di un Major, gioca con una vecchia Dunlop fuori produzione da almeno due decadi e incordata, si fa per dire, con una tensione di appena dieci chili. Per i meno avvezzi, come giocare a tennis con una fionda su un campo da ping pong. Impossibile, ma non per lui, pensare di tenere una palla che sia una tra le righe. Questo perché, stranezze congenite a parte, è dotato di una forma di talento abbacinante. Incontrare Mannarino è un po’ come imbattersi in quei personaggi bizzarri, nella mimica sconclusionata e nel costume improbabile, che pensi non combinino nulla di buono nella vita salvo poi scoprire, già alla terza parola, che sono dei fottuti geni. Ecco, Adrian è così, geniale.

Se l’addome, che non gli si vede mai, c’è da giurare non sia quello forgiato da sessioni disumane in palestra, in compenso se si tratta di tennis c’è poco da dovergli insegnare perché, in un contesto stereotipato e pure tendente al brutto, la sua tecnica di base riconcilia con la disciplina. Mancino, sempre a proposito di geni, riesce ad abbinare due concetti fisici fondamentali per primeggiare: tempo e spazio. La capacità di anticipo, quindi l’arte del controbalzo, e la quasi assenza di rotazioni in colpi praticamente piatti come una volta, fanno sì che Mannarino, del tempo, sia un autentico ladro e all’avversario lo strappa letteralmente dalle mani. In quanto allo spazio, invece, c’è da pensare che in una precedente vita sia stato un geometra, appassionato di Euclide e Pitagora, perché capace di disegnare traiettorie che a definire inusuali gli si fa un torto. Roba che ti manda ai matti.

Il resto è talento puro. Detto delle corde tese meno della metà della media dei professionisti, e chi un po’ ha giocato a tennis sa quanto ogni tassello di corpo e mente debba essere al posto giusto per non tirare la palla in tribuna in quelle condizioni, Adrian è competente praticamente in tutto e lo fa con la semplicità di chi ha la mano benedetta da Madre Natura. Talento, appunto, quello di risolvere problematiche complesse in assenza di sforzo. Sembra non faccia fatica a far uscire traccianti dalla racchetta, questione di pulizia tecnica e di utilizzo allo scopo dell’energia cinetica altrui, e capita spesso che lasci l’avversario fermo immobile a tre metri dalla palla nonostante non sia depositario della forza bruta. Perché, a pensare di giocarci contro tirando forte e alla cieca – Shelton, un nome a caso – significa essere intortati come poppanti al primo giorno di scuola.
Stessa competenza esibita nel gioco verticale, una rarità.

È la presa della rete dei suoi avi rivoluzionari che conquistarono la Bastiglia. Movimenti corretti, tempismo, senso della posizione e, infine, gran bel gioco di volo condito da un tocco raffinato. Che se non fa di lui Pat Rafter, del resto chi lo è, ne fa indiscutibilmente uno dei migliori volleatori in attività, capace di coniugare redditività e, cosa che non guasta, spettacolo. Guardarsi qualche sortita a rete proprio contro Shelton per credere. La morale è che è sempre una buonissima idea quella di dedicare due ore del proprio tempo ad un match di Mannarino perché qualcosa, noi che il tennis è amore grande, la si impara sempre. Anche in considerazione del fatto che l’anagrafica non perdona e le trentacinque primavere sulle spalle suonano un po’ come ultimo tango e, chissà, magari proprio a Parigi. Con un epilogo che si spera possa essere più fortunato di quello riservato da Bertolucci a Marlon Brando nella celebre pellicola. Anche se, al pari di Jeanne, diremmo anche, noi di lui, “era un pazzo”. Del resto è proprio per quello che, tennisticamente, lo amiamo visceralmente. Con quella faccia un po’ così.

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