― pubblicità ―

Dall'archivio:

Quanto manca, al centrodestra dell’Est Ticino, la leadership di Mario Mantovani. Che oggi compie 70 anni (+ uno): tanti auguri!

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

ARCONATE  “(I 5 Stelle non sanno) governare una società complessa. L’aver avuto il successo elettorale è stato il loro cappio. Questo successo li ha obbligati a diventare una forza del rovesciamento, per essere coerenti con la loro impostazione, rivoluzionario del sistema. Per praticare questo obiettivo erano totalmente inadatti per attrezzatura culturale, per attrezzatura mentale, per organizzazione del Paese, e per tanti altri motivi. Hanno trovato, però, nelle istituzioni in crisi del Paese un aggancio”.

Nel giorno in cui compie 71 anni, per Mario Mantovani valgono- eccome se valgono- le parole intelligentemente affilate di un gigante della Prima Repubblica, o Repubblica dei partiti che dir si voglia, come Rino Formica.

Valgono in tutta Italia ed anche nell’Est Ticino ed in Lombardia, terra dove grillini e grillismo hanno sempre attecchito poco (nonostante lo sciagurato reddito di cittadinanza, qui si lavora e produce),  ma dove l’assenza (o quanto meno la posizione defilata) di un leader come Mario Mantovani manca, eccome se manca, sia al centrodestra che al suo fu partito, Forza Italia, la sedicente àncora del garantismo che alle elezioni del 2018 esclude un politico che non aveva neppure subito una condanna in primo grado, e che dopo assoluzioni di vario genere e conio sta finalmente, tuttavia dopo una dolorosa parentesi protratta per anni, riconquistando l’onore che qualcuno aveva cercato di strappargli di dosso.

Manca, e tanto, la leadership di Mario Mantovani. Lo si vede da chi gli è rimasto vicino, fedele e soprattutto amico, se paragonato a certi esempi del nuovismo di questa Terza Repubblica dell’est Ticino. Sindaci e sindachesse sciapi, smunti, calati dal basso (alto sarebbe un’offesa alla qualità e al merito); candidati (e candidature) rattoppati e rabberciati, pescati in articulo mortis, senza storia, senza passato, senza meriti. Senza il minimo afflato di futuro, e men che meno di orizzonte valoriale.

L’esatto opposto di quanto accadeva durante l’epoca che le venefiche scorie del grillismo hanno bollato come nefanda: la Prima Repubblica, assieme ad innegabili limiti e difetti, aveva anche evidenti ed innegabili pregi. Su tutti: la cosiddetta ‘selezione della classe dirigente e del ceto politico’.

Fosse (solo) per questo, la ventennale parentesi politica di Mantovani sarebbe già da passare in archivio come luminosa e feconda, rispetto al degradante scenario politico cui noi cronisti della Bassa e di campagna siamo costretti ad assistere, sempre meno speranzosi: ché scivolare verso il  basso, quando il piano è inclinato, è questione di un amen. E poi si crolla, senza rimedio.

Cosa manca, esattamente, della leadership di Mario Mantovani? Esattamente quello che scrivemmo esattamente un anno fa, 28 luglio 2020, in occasione dei primi 70 anni del politico ed imprenditore di Arconate, e che lette oggi ci paiono (ancora) perfettamente calzanti. E purtroppo appropriate.

Manca tanto, quasi tutto. Il Mantovani che per quasi 20 anni riesce nel creare, di fatto, una corrente. Consiglieri, assessori, sindaci, deputati. Molti dei suoi pretoriani vengono dal cattolicesimo politico e sociale (Luca Squeri, il figlio del partigiano bianco amico di Enrico Mattei; Sante Zuffada, già sindaco Dc di Magenta), altri sono folgorati sulla via di Arconate e rimangono irretiti dal carisma di un politico che a ogni incontro, convention o cena amava chiamare uno ad uno i suoi amici (e qui Mantovani compie un semi capolavoro: immette la categoria dell’amicizia in un mondo di farabutti e leccaculo, ossia la politica. Ovvio che, dopo il suo arresto, molti ex cortigiani si dissolveranno come un ghiacciolo nel deserto), impiegando minuti a stiparli tutti su palchetti improvvisati.

Forza Italia, e con essa An e Lega, avevano coordinamenti di collegio forti, classe dirigente selezionata quasi sempre in modo serio e credibile, i sindaci rispondevano ai cittadini e a criteri ancora efficaci di scelta.

Tolto il maggioritario, tolto il legame tra eletto ed elettore, tolti i collegi, di quella luminosa esperienza non è rimasto nulla. Spesso, esperienze amministrative imbarazzanti e Comuni commissariati prima del tempo. Per palese incapacità degli astanti.

Il centrodestra di quegli anni superava il 50, 60% dei consensi, dando un’impronta forte alla gestione degli enti locali. Oggi l’unico partito rimasto ad effettuare selezione della classe dirigente (e a fare ‘scuola di partito’) è la Lega, dalle nostre parti.

Forza Italia, rispetto agli anni d’oro di Mantovani, è un ectoplasma. C’è, ma non esiste. I cacicchi di cui sopra, tranne rarissime eccezioni, sono asserragliati su scranni dove molti di loro sono arrivati per cooptazione, e non certo tramite le forche insidiose del consenso elettorale e popolare.

Di questa inconsistenza politica (1 anno dopo Forza Italia vivacchia nei sondaggi tra 6 e 8%, che non sarebbe neppure IL problema: quello è la ormai inarrestabile, ormai, fuoriuscita progressiva di Silvio Berlusconi dall’agone politico, e la prosopopea di chi, come Mara Carfagna, sembra convinto di avere anche solo un’unghia di Berlusconi per potergli succedere con gli stessi risultati), si trova una traccia nel libro che Mantovani ha realizzato per i suoi primi 70 anni (chi pensa sia ormai orientato a dedicarsi alle sue bellissime e già due nipotine, Amalia e Angelica, si sbaglia di grosso): dove per la prima volta, e con parole crudelmente essenziali, l’ex vicepresidente di Regione Lombardia ricostruisce i mesi che precedettero la sua NON ricandidatura alle Politiche del 2018 sotto le insegne azzurre.

Ed allora, era febbraio 2018, ecco che dopo le colonie estive, l’insegnamento, la creazione di un gruppo imprenditoriale e sociale da oltre 1000 collaboratori, Mantovani conferma una volta di più che i politici di razza hanno una dote NON ereditaria, il fiuto: si accasa in Fratelli d’Italia, allora veleggiante attorno al 4%, e coglie i segni (evidenti, a chi mastica politica) della crescita impetuosa di Giorgia Meloni.

Assieme a Daniela Santanché e al manipolo di sindaci ed amministratori rimastigli vicino, con l’elezione alla Camera di sua figlia Lucrezia (che intelligentemente svolge il suo ruolo politico e istituzionale con un registro personale e più consono alle proprie sensibilità, piuttosto che scimmiottare dinamiche altrui), Mario Mantovani scruta, osserva, consiglia, incontra (il flusso degli incontri, nei suoi uffici, non si è mai interrotto. Mantovani gode tuttora, 6 anni dopo la valanga giustizialista e un arresto dovuto a un presunto reato dal quale è stato assolto 4 anni dopo, di un consenso personale e di una rete di relazioni inusitate, per gli standard di oggi, tempi bui nei quali molti ‘politici’ potrebbero radunare i propri seguaci in una cabina telefonica, o al tavolo di un bar), consiglia, suggerisce.

E’ un ruolo, va da sè, defilato rispetto a prima. Dovuto a una molteplicità di fattori: neppure un uomo con la forza e il coraggio di un leone, qual è Mario Mantovani, perde di vista il quadro complessivo e lo scenario, diciamo così, di fondo.

E così il partito a cui Mantovani ha donato tempo, consenso, sangue e fedeltà reale a Silvio Berlusconi (chi c’era di fronte al palazzo di giustizia a Milano a difendere Berlusconi? Fate un check su Google immagini e su quelle di repertorio, e scoprirete parecchie cose) si gode il protagonismo degli ultimi comprimari, delle mezze figure, dei cacicchi rancorosi, di politici di mezza o quarto di tacca che non potrebbero MAI illuminarsi di luce propria, mentre è riuscito ad emarginare uno come lui. Lasciando la politica territoriale orfana, soprattutto nell’est ticino e soprattutto nel campo moderato e che si oppone al progressismo (mentre la Lega, come e sempre più di prima, rafforza la sua natura di partito saldato tra militanti, classe dirigente, leadership politiche, apparatchik di terzo millennio: basti guardare alla costruzione, sempre più evidente, del primato nell’est Ticino, e ora in Lombardia, di un politico come Fabrizio Cecchetti: un esempio virtuoso di ‘correntismo buono’, forte, intransigente quando serve ma dialogante all’occorrenza).

E consegnandoci, negli ultimi anni, un Mantovani che ha riscoperto la sua vocazione naturale  e pre politica per l’imprenditoria e la visionarietà. La recente acquisizione di villa Clerici a Cuggiono, in questo senso, potrebbe rappresentare non una, ma LA sfida del politico e già imprenditore di Arconate nei prossimi anni.

IL POPULISMO BUONO

Sbaglia, e ha sbagliato di grosso negli anni, chi nel passato più o meno recente ha bollato Mantovani di ‘populismo’. Ora noi sappiamo assai bene che è più facile, assai facile, ascoltare certi sproloqui di Michela Murgia sul piccolo schermo che studiare le migliaia di pagine dedicate da un politologo come Marco Tarchi a questo tema; tuttavia questa evidenza non esenta dal peccato e dalla colpa dell’ignoranza.

Perché se è stato qualcosa, quel qualcosa Mantovani lo è stato fondendo un carisma di Strapaese a una saldatura tra il carattere populista e nazionale del fare (e dell’essere) politica.

“Il populismo è una scorciatoia che costeggia l’abisso della demagogia per offrire soluzioni semplificate e assai sentite dalla gente; ma è anche l’estremo rifugio rispetto al dominio delle oligarchie, dei poteri opachi, delle sovranità nazionali, popolari, economiche esautorate. Ci sono due ragioni più forti che hanno decretato la trasformazione radicale del populismo. La prima, vistosa, sancita a furor di popolo, è il passaggio dalla fase fluida e puerile a una più matura, più definita, più adeguata alle responsabilità di governo. Il populismo è stato sostituito dal sovranismo, in Italia e nel mondo, che ne eredita il magma però si spinge oltre, lo delimita in precisi concetti e in spazi politici ben marcati: la sovranità dei popoli, della politica e degli stati nazionali, il senso della realtà e dei confini, la protezione economica dei popoli e dei prodotti “nostrani”, il richiamo alle tradizioni civili e religiose, la decisione sovrana, la sicurezza”.

Con la consueta e vivace chiarezza, Marcello Veneziani tempo fa decrittava così le stimmate del populismo post moderno. E che cos’altro sarebbe, se non fieramente, sanamente populista, il Mantovani che da sindaco prorompe in ‘evviva i nostri anziani’, del Mantovani che sfila, del Mantovani che sogna la grandezza per un Comune da poche migliaia di abitanti, che vi realizza un Liceo Europeo, che ne cura aiuole e spazi verdi con cura certosina, se non un ‘fiero populista’?

Solo che oggi, chiusa quella lunga parentesi, si sono spente le luci, silenziate le piazze, morte per consunzione le ‘correnti’: rimangono piccoli leader, novelli capipopolo, capibastone da  avanspettacolo, politici locali con l’eloquenza di un balbuziente.

Così è stato, così è avvenuto. Ma il ricordo del passato recente non s’è spento, e la speranza di vedere ricostituite le legioni d’un tempo, e la feconda capacità di scegliere, selezionare i migliori e i più capaci (e non solo quanti si distinguono unicamente per una fedeltà cieca al capo di turno), vive ancora.

Assieme alla consapevolezza che anche l’attuale è una parentesi.

E che non c’è grillismo che tenga: la Politica, quella vera, quella dove sicuramente si commettono anche degli errori, delle scelte sbagliate (ma dove NON si perde mai la capacità della visione di fondo e della logica d’insieme, e di sistema), è stata, è e sarà sempre quella che descrisse magistralmente Paolo Cirino Pomicino.

“Ricordava Platone che chi non sa fare un paio di scarpe non si metterà mai a fare il calzolaio, così come  chi non sa di medicina non curerà mai gli ammalati. Tutti, però, si ritengono all’altezza di guidare lo Stato e il paese. Nessuna scuola, professionale o classica che sia, potrà mai dare quel profilo culturale e di sensibilità che la politica richiede. È nella vita delle associazioni ma innanzitutto in quella dei partiti che si apprendono e dialetticamente si accettano strategie e programmi. È negli enti locali che si matura la prima esperienza, ci si confronta con il potere amministrativo e con la capacità di applicare le proprie idee nella realtà quotidiana. E infine è nell’attività legislativa parlamentare che si assume una visione d’insieme dei bisogni e delle risposte che essi sollecitano, allenandosi a mantenere sempre viva l’attenzione sugli effetti che una norma legislativa produrrà sul corpo vivo della società e dei suoi legittimi interessi”.

Quanto rimpianto per il ‘mantovanismo’ che fu, in tempi recenti. Per l’odore di risotto, di salamella, per i palchetti improvvisati dove si tenevano comizi improvvisati (‘è con noi questa sera il sindaco di Magnagooooooooooo’, e la solennità era quella spettante a quello di Nuova York..), dove a un certo punto si rischiava di cadere, perché Mantovani li voleva tutti al suo fianco, i suoi pretoriani e le sue pretoriane.

Altri tempi, altri uomini..  Felice compleanno, senatore.

Fabrizio Provera

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi