Roland Garros: Sinner e la pedagogia di una sconfitta

Il neo numero uno al mondo esce a testa altissima

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Jannik Sinner che tiene in campo Carlitos Alcaraz per cinque set e quattro ore significa una cosa sola, che l’italiano è davvero un gigante. Ha perso, diranno alcuni. Tante grazie. Contro uno che senza distrazioni o vezzi narcisistici esplora vette di magnificenza balistiche federeriane e che ha il triplo delle soluzioni per le mani, giocare punto a punto e soccombere solo sul filo di lana è roba da campionissimi. Alcaraz ha un difetto, tende a piacersi molto in ciò che fa, che altro non è che l’anticamera della distrazione. Che, a sua volta, è preludio della frittata. Gli succede spesso di divagare con la mente ma altrettanto spesso salva comunque la pelle, questione di surplus di cilindrata. Non contro Jannik, perché se all’azzurro regali qualcosa ti fa secco, anche se sei giocatore epocale come il murciano. Non oggi, succede.

In questo momento, niente può essere migliore della loro rivalità e il match odierno, una semifinale Slam con tutte le implicazioni concettuali possibili, ne è stata la plastica conferma. Se le sono date di santa ragione ma purtroppo per Sinner il suo avversario è rimasto centrato fino alla fiamma rossa dell’ultimo chilometro, raggiunta grazie alla mezz’ora paradisiaca che ha spaccato in due la partita a cavallo fra il quarto e il quinto set; mezz’ora che può tranquillamente essere presa e custodita nel caveau del tennis. Dev’essere fiero, Jannik di questo match, disputato con un serbatoio non proprio capiente e pure con qualche crampo. Perché il tennis, ciò che c’è di più lontano al mondo dalla scienza esatta, non è mica detto che finisca sempre per premiare il più talentuoso, cioè Alcaraz, sovente gratifica il più quadrato, quello che ha più voglia, chi della materia privilegia lo stato solido. Aspetti nei quali Sinner è titolare di cattedra universitaria.

Vale molto questa sconfitta, quindi, per almeno tre motivi. Il primo è che l’anca dolente sta bene
. Un malanno che ci aveva messo in allarme e che, invece, pare essere stato risolto a tempo record senza particolari strascichi. Il secondo è che anche sulla terra, superficie almeno fino a ieri meno amica dell’altoatesino, è cavallo da corsa. Insomma, Jannik sul mattone tritato ci perde due partite a stagione, male che vada. La terza, e forse più importante, è la conferma di una peculiarità che vale non meno del talento. Jannik, anche in condizioni psicofisiche non ottimali, ha la capacità di dare di sé la migliore versione possibile, costringendo il suo avversario a non poter mai abbassare la guardia. Chi pensa sia poco è perché ignora le basilari dinamiche dello sport del diavolo.

Spiace che Sinner non ce l’abbia fatta, si rifarà molto presto, ma c’è da essere euforici per la presenza di nostri connazionali in tutte le altre finali parigine. E da domani si torna a sognare. Chiosa finale tutta a beneficio di Alcaraz. Per chi ha visceralmente amato i Federer Moments, quelli teorizzati dal compianto David Foster Wallace, l’unica chance di trovare soddisfazione da una partita di tennis, oggi, è quella di attendere che Carlitos decida di transitare per qualche minuto su traiettorie inesplorate quindi sconosciute. Consentendo, così, che un’equazione niente affatto scontata, bellezza uguale vittoria, torni ad essere veritiera. Qualcosa che nella storia del tennis hanno fatto in pochi.

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