Federico Buffa riesce a far sognare (anche) Busto Arsizio, con la sua milonga del futbol: una magia, tra Paolo Conte e Atahualpa Yupanqui

La recensione dell'evocativo spettacolo a cura di Teo Parini

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Busto Arsizio. Per una per una sera, grazie al magistrale lavoro di Federico Buffa che ha portato a teatro lo spettacolo intitolato “La Milonga del fútbol”, la città varesina si è trasformata nel quarantanovesimo barrio di Buenos Aires. Argentina popolare, uno spaccato calciofilo incastonato nella città che deve la denominazione ai marinai sardi giunti per primi sulle sue coste e che imposero il nome del patrono venerato proprio in Sardegna.

Già da qui si è potuto immaginare che il sodalizio Italia-Argentina sarebbe stato il fortunato leitmotiv di un paio d’ore di spessore artistico che hanno avuto il pregio di parlare di un calcio meraviglioso che non c’è più ma senza parlare necessariamente di calcio. Prendendo a prestito dal cassetto della memoria tre storie speciali che, se nella narrazione dell’autore si intrecciano e volutamente si confondono, è solo perché tutto quanto, nella realtà rinverdita dal protagonista, andò realmente così.

Tre personaggi, allora, accomunati dalla genialità di chi a modo suo dà incondizionatamente del tu alla vita; uomini che nella rigorosa staffetta imbastita dal sempre impeccabile Chronos hanno preso il gioco portato in Argentina dai maestri inglesi e ne hanno fatto, con il supporto di un popolo che ha l’Italia nel sangue, una travolgente storia d’amore. A far vivere nel Teatro Sociale il clima infuocato della Boca, sebbene il Rile ed il Riachuelo non siano proprio la stessa cosa, è la debordante passione per la bellezza dello sport, e per i particolari che trasudano più umanità che palmares, che trova in Buffa un gigante della nostra comunicazione. Nello specifico, il suo è l’antidoto alla banalizzazione di un gioco, quello del calcio, che, sebbene oggi sia quanto di più omologato possa esserci perché drogato di petrodollari ed egemonizzato da protagonisti con pochissimo da trasmettere, ha avuto trascorsi di talentuosa creatività e non solo in mezzo al campo.

Renato Cesarini detto il Cé, che argentino non fu di nascita ma solo perché dalle Marche vi giunse attraversando l’oceano a nemmeno un anno di vita, non è solo il prestanome del noto neologismo pallonaro, quello del gol all’ultimo secondo a cui si deve l’omonima “zona”, ma una storia policroma impregnata di povertà, emigrazione, spirito di rivalsa, tango, donne e, appunto, fútbol. Giocatore straordinario e poi allenatore visionario, connubio tutt’altro che scontato, Renato da ragazzo faceva il saltimbanco per le strade di Buenos Aires ed il suo essere scevro da schemi, al pari dei funamboli circensi, ne caratterizzò l’intera esistenza. Ribelle ma non per moda – pare che, pizzicato in un ristorante in orario di allenamento da Edoardo Agnelli, rispose al rimbrotto di quest’ultimo facendogli arrivare al tavolo cinque bottiglie di champagne e la promessa, ovviamente mantenuta, di segnare un gol l’indomani nella partita di campionato – Cesarini ha prima disegnato calcio, grazie ad uno dei piedi più educati ed imprevedibili di sempre, e poi lo ha insegnato, non a caso in Argentina è chiamato ancora oggi la “Bibbia del fútbol”, seduto in panchina.

Prigioniero di nulla, se non del suo amore per la varietà della vita, al Cé, come lo si chiamava all’epoca, si deve anche il primo passaggio di consegne di questa travolgente carrellata teatrale albiceleste con una spruzzata tricolore. Fu lui, infatti, a scoprire quello che si rivelerà un artista della sua stessa genia calcistica, Omar Sivori. River Plate, settore giovanile, l’incrocio fra il maestro e l’allievo. Il primo crocevia. Perché, in quella strepitosa vicenda che è sempre la vita, ce ne sarà pure un secondo, manco a dirlo, in Italia. Quella degli anni ‘50 che prova a risollevarsi dalle disgrazie della guerra, con Cesarini che allena la Juventus e “El Cabézon”, com’era soprannominato Sivori e non serve esplicitare la ragione, a far ammattire gli avversari.

Tecnica sopraffina, scaltrezza e cattiveria agonistica, in un calcio nel quale ai difensori che si prendono cura di quelli come lui si è insegnato che prima la caviglia e poi eventualmente anche la palla. Calcio maschio, antico, rusticano, dove per regola non scritta le si dà e le si prende, le botte. Dove Sivori, in trio con Boniperti e Charles, si è ritagliato, puntellato dal talento dei predestinati, un posto tra i giocatori più forti di ogni epoca. Angelo dalla faccia sporca, per ben trentatré volte in carriera l’arbitro lo cacciò anzitempo dal campo, Omar, che abbassando i calzettoni rivendicava l’assenza ontologica del sentimento della paura se non quella per l’aereo che detestava, non fece mai nulla per farsi volere bene, con il risultato che il mondo del soccer per l’occasione trasversale ne restò ammaliato. Odioso e sublime, quando, dopo aver scartato mezza squadra avversaria, fermò la sua corsa trionfale sulla linea di porta, con il pallone immobile accarezzato dalla suola della scarpa, per poi vanificare l’intervento disperato del povero Vincenzi, difensore sampdoriano, spostando il pallone a ritroso. Prima di spingerlo dolcemente in rete. Irriverenza, strafottenza calcistica alla potenza massima. Essenza, quella calcistica. Mentalità, quella latina.

Quando diversi anni più tardi, Menotti, il selezionatore della nazionale nell’Argentina ai tempi funesti di colonnelli e desaparecidos, lo fece fuori dai convocati per il Mondiale casalingo, fu proprio Omar Sivori, per primo, ad assicurargli che nessun uomo avesse facoltà di cambiare l’incedere del tempo e che il suo luminoso tempo sarebbe presto venuto. Diego Armando Maradona, appena maggiorenne, aveva appena scoperto che quel maledetto torneo lo avrebbe visto dalla tivù, celebri furono le sue lacrime adolescenziali, e la benedizione di Sivori, se proprio non cambiò il corso degli eventi, sancì il secondo passaggio di consegna di un filo rosso fuoco destinato a non spezzarsi mai. Sul Pibe de Oro è difficile dire qualcosa di originale che non sia già stato detto, anche per uno come Buffa che, in quanto a fantasia, si conferma ancora una volta docente universitario. Il gol più bello della storia del soccer, la mano di Dio che sbattè in faccia agli inglesi che calcio è pure politica, l’amore incondizionato dei diseredati del pianeta, l’amicizia a lui riservata dai giganti del popolo come quella indissolubile di Fidel Castro, la sregolatezza e propensione autodistruttiva, la simbiosi con la città di Napoli o quella con l’America Latina tutta. Soprattutto, l’umanità. Che questo schifo di mondo non ha saputo meritarsi e che, di rimando, lo ha fatto morire solo come un cane.

E se l’Equipe ebbe modo di uscire in prima pagina con l’altisonante “Dieu est mort” quando lo trovarono senza vita, probabilmente ammazzato da uno dei piccoli uomini che gli hanno voluto male per il solo fatto di non essere in vendita, nessuno percepì in quel titolo un’esagerazione. Inviso ai potenti, osannato dagli ultimi, il suo volto campeggia imperituro in ogni periferia del mondo. Nei quartieri dove pensare al domani è da eroi e giustizia soltanto una parola sul dizionario, Maradona non è mai morto. Vive sui muri che lo ritraggono, per le strade affollate, sui campi da calcio più sperduti, nell’immaginario collettivo. Soprattutto, vive nei bambini che, come lui, provano a darsi un futuro diverso da quello che gli è stato scritto, magari inseguendo un pallone.

Si chiude così, con l’immagine di un campo fiorito sullo sfondo e una cascata di applausi commossi in platea, la performance di un Buffa monumentale, che, accompagnato al pianoforte da Alessandro Nidi e dalla voce calda di Mascia Foschi, è foriera di un messaggio che, prendendo a pretesto lo sport, afferma l’importanza nella vita di non fermarsi mai alla superficie. Di non essere, appunto, superficiali ma cacciatori di sfumature. Perché è scavando dove la massa è convinta non si possa trovare nulla di buono che i colori assumono le tonalità che più abbagliano. Come il Sol de Mayo.

Alle prese con una verde milonga (testo e musica di Paolo Conte)

Alle prese con una verde milonga

Il musicista si diverte e si estenua

e mi avrai, verde milonga che sei stata scritta per me,

per la mia sensibilità, per le mie scarpe lucidate

per il mio tempo e per il mio gusto

mi avrai, verde milonga inquieta

che mi strappi un sorriso di tregua ad ogni accordo,

mentre fai dannare le mie dita

?io sono qui, sono venuto a suonare,

sono venuto ad amare, e di nascosto a danzare

e ammesso che la milonga fosse una canzone,

ebbene io l’ho svegliata e l’ho guidata ad un ritmo più lento

così la milonga rivelava di sé molto più di quanto apparisse?

la sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra,

il suo essere di frontiera, una verde frontiera?

una verde frontiera tra il suonare e l’amare,

verde spettacolo in corsa da inseguire?

da inseguiere sempre, da inseguire ancora, fino ai laghi biancchi del silenzio

fin che Atahualpa[1] o qualque altro dio

non ti dica: descansate niño, che continuo io

?io sono qui, sono venuto a suonare,

sono vinuto a danzare, e di nascosto ad amare

[1] si allude ad Atahualpa Yupanqui, ultimo grande interprete della danza pampera chiamata milonga

■ Prima Pagina

Ultim'ora

Altre Storie

Pubblicità

Ultim'ora nazionali

Altre Storie

Pubblicità

contenuti dei partner