Ken Rosewall, quindi non l’ultimo arrivato, un giorno parlando di lui disse che se tutti i più forti giocatori degli anni Sessanta si fossero ritrovati, magari a causa di un naufragio, su un’isola deserta e impossibilitati a giocare a tennis per mesi, qualora fossero tornati alla realtà dei tornei per sfidarsi a Wimbledon, il tempio, avrebbe vinto senz’ombra di dubbio Nicola Pietrangeli. Che se non trionfò anche in Church Road nell’anno 1964 è solo perché in una semifinale epica perse sul filo di lana al termine di cinque set contro Rod Laver, l’unico uomo di questo e altri eventuali mondi ad avere realizzato, non uno, ma due volte il Grande Slam.
Nicola Pietrangeli da ieri non c’è più: ha lasciato, all’età di novantadue anni vissuti senza freni, un mondo a cui sportivamente, ma non solo, ha dato e dal quale ha ricevuto molto. L’Italia, allora, saluta il più forte campione del tennis azzurro prima che l’Era Open sdoganasse il professionismo.
Se per troppi neo-aficionados dello sport che fu pallacorda, affacciatisi grazie alle gesta di Sinner e al clima nazionalpopolare che lo accompagna, Nicola era solo una macchietta controcorrente e pure un po’ invidiosa, costruita dai social (e da giornalisti) sempre bravi a manipolare il messaggio, sono i limiti dello sport che si fa di massa dalla mattina alla sera, per chi ama visceralmente la disciplina del diavolo Nicola è un pezzo di storia imperitura, capace di scrivere pagine e record che, anche a distanza di anni, suscitano un immutato orgoglio patriottico.
Tennis pionieristico: parafrasando il Vate Gianni Clerici, il gioco dei gesti bianchi. Tennisti più ballerini che macchine da guerra, ai quali lo sport che oggi glorifica i mazzulatori richiedeva per emergere due attributi rari e non derogabili, stanti le condizioni disagevoli al contorno, tra racchette intagliate nei tronchi, pesanti come clave, e campi da gioco dal rimbalzo così così: manualità da sartoria e smisurata intelligenza tennistica. In assenza, decisamente meglio occuparsi d’altro.
Al solito, l’almanacco conta solo il giusto trattandosi di elogio alla bellezza, ma a beneficio degli amanti di numeri e statistiche Pietrangeli può vantare due Roland Garros, primo italiano di sempre a vincere un Major, due Internazionali d’Italia, tre Montecarlo, la terza posizione mondiale, centosessantaquattro match di Coppa Davis (quella vera, che purtroppo gli è sempre sfuggita) con centoventi vittorie che gli sono valse l’appellativo universale di Davisman, più di venti campionati nazionali. Insomma, un gigante.
Se la Davis gli sfuggì da giocatore, fu però sua in veste di allenatore. Anzi, si può dire senza timore di essere smentiti che se la squadra magica del 1976 – quella composta da Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli – sollevò il trofeo è perché fu proprio il Capitano non giocatore (si chiama così) a imporsi con l’establishment della politica italiana affinché quella finale, nel Cile del boia Pinochet, venisse disputata senza cadere nell’ipocrisia generale. Così, l’immagine degli azzurri vestiti con coraggio di rosso nella bolgia cilena è assurta a indimenticabile momento dello sport italiano all-time.
Adriano Panatta, il mito azzurro che idealmente ne ereditò lo scettro, ha speso ieri parole bellissime nei confronti di Pietrangeli, mettendo un punto si spera definitivo alla querelle – per la quale i due si odiassero – ordita da giornalisti più interessati al riscontro mediatico che alla qualità deontologica del loro operato. “Nicola era il mio amico – ha detto – anche se ci beccavamo ogni tanto, ma era un gioco. Io lo voglio ricordare con allegria: è stato un personaggio straordinario, al di là di essere un campione che ha vinto praticamente tutto quello che c’era da vincere nel periodo in cui giocava”.
Nicola, depositario di un rovescio tra i più formidabili che si ricordino a memoria d’uomo, avrebbe potuto scegliere di farsi chiamare conte e non solo per l’eleganza scritta nel suo corredo cromosomico. I suoi nonni d’origine russa, infatti, erano nobili e, poiché la madre non aveva fratelli maschi, trasmise il suo titolo a lui. “Sarei il conte Nicola Shirinsky Pietrangeli”, disse una volta con la consueta ironia.
Nato a Tunisi l’11 settembre del 1933, nella sua Roma ci arrivò grazie a una strana combinazione familiare. Suo padre era di origine italiana ma si era trasferito in Tunisia. Sua madre, invece, era appunto di origini russe e la famiglia, in fuga dalla Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre, aveva trovato rifugio anch’essa in Tunisia. Durante la seconda guerra mondiale la famiglia Pietrangeli visse, però, momenti molto difficili. La casa fu distrutta da un bombardamento aereo e il padre venne internato in un campo di prigionia. Al termine del conflitto, a causa del provvedimento di espulsione dal Paese nordafricano (i francesi trattavano gli italiani come soggetti sospetti), si trasferirono a Roma e per Nicola fu l’inizio del sodalizio con la capitale.
La Città Eterna gli dedicò, già nel 2006 seppur ancora in vita, l’ex stadio della Pallacorda del Foro Italico, quello impreziosito dalle diciotto statue in marmo, quello che fu teatro di alcune delle sue più leggendarie imprese. Dove, nel 1957, sconfiggendo quel Beppe Merlo che si narra inventò il rovescio monomane, incamerò per la prima volta gli Internazionali al culmine dell’unica finale romana tra due azzurri. Quello in cui, domani, verrà allestita la camera ardente.
Disse un giorno: “Il mio funerale, fra mille anni, si farà allo stadio Pietrangeli. Innanzitutto perché c’è parcheggio, poi perché ci sono tremila posti seduti. Mi dispiace che non potrò assistere, per vedere chi viene e chi non viene. In caso piovesse, appunto, potremmo rimandare, mettendo la bara nel sottopassaggio”. E la musica? “La sto ancora decidendo – aggiunse – anche se ‘My Way’ all’uscita non sarebbe male”.
In ‘My Way’, Sinatra cantava al mondo la storia di un uomo che, guardando in faccia la morte, non rinnega nulla della sua vita. Un capolavoro iconico, il suo, che racconta successi e fallimenti, amori e addii con la consapevolezza di chi sa di essere stato incondizionatamenre fedele a se stesso, ai suoi principi, ai suoi desiderata. Morale, di avere fatto le cose “a modo suo”. Proprio come Nicola, che a sentirla suonare nella cornice unica al mondo del Foro Italico sembrerà essere stata scritta appositamente per lui.
Ciao Nick, fa’ buon viaggio.




















