“C’è, in un’isola lontana, una favola cubana che vorrei tu conoscessi almeno un po’. C’è, un’ipotesi migliore per cui battersi e morire e non credere a cui dice di no. Perché c’è.”
(Cohiba, D. Silvestri)
Nessuno ha mai fatto una cosa simile, nemmeno Michael Phelps o Carl Lewis. Cinque Olimpiadi consecutive, cinque medaglie d’oro. Mijaín López Núñez, si. Nato quarantadue anni fa dalle parti di Pinar del Rio, Cuba occidentale, e gigante dal volto buono da centotrenta chili, di professione fa il lottatore e il suo campo di battaglia è quello della categoria regina della lotta greco-romana, i pesi massimi. Gente di muscoli, cuore e cervello fino.
Il suo ultimo avversario, cubano anch’esso ma assoldato dal Cile, ha appena lasciato il tappeto da sconfitto, così Mijaín, dopo il giro d’onore a beneficio dei connazionali assiepati sulle tribune parigine, riacquista il centro. Si inginocchia, slaccia le stringhe delle scarpe, se le leva. Le bacia, ma solo dopo averle sollevate al cielo, poi le deposita dove tutto è cominciato ormai nel lontano 2004, i suoi primi giochi. Finiva fuori dal podio in quella circostanza, ma i successivi cinque li vincerà, uno dopo l’altro. Un gesto che sta a significare che questa volta è tutto finito, l’epopea del guerriero del popolo si chiude in gloria, in un afoso pomeriggio del 2024.
Tutto ha una fine, perché anche tra gli dèi si stringono reciprocamente patti e quello che lui ha stipulato con Chronos non ammette deroghe. Sembra impossibile che possa succedere ad un colosso d’uomo, che potrebbe spostare le montagne con le mani e sollevare pianeti, ma i suoi occhi sono lucidi. Anche i duri si commuovono perché, parafrasando non a caso Guevara, non bisogna mai scordare la tenerezza. Mijaín promette, Mijaín mantiene, aveva detto il Presidente cubano Díaz-Canel, che oltre a guidare con coraggio e consapevolezza l’isola ribelle conosce molto bene i suoi eroi. Detto e fatto, l’oro di Cuba.
E non è certo una sorpresa se oggi tutta l’America Latina desiderosa di rivalsa celebri con felicità contagiosa l’impresa del pentacampione. Perché Mijaín è la quintessenza del riscatto sociale, il volto della Rivoluzione cubana prestato allo sport che, della vita, è sempre luminescente paradigma. Mijaín, pertanto, è prima di tutto un’idea. Quella che un mondo diverso dal nostro, che descriviamo come il migliore, sia sempre possibile, senza l’ingordigia e gli eccessi dei pochi a scapito degli ultimi. Quella di un modello di vita che, non essendo negoziabile, dovrebbe farci invidia, dove lo sport è per tutti e di tutti e non solo dei ricchi. Palestre popolari che trasudano umanità e condivisione e playground a disposizione di chiunque si metta in testa di inseguire un sogno a cinque cerchi.
Nonostante da decenni non facciamo altro che affamare un’isola piccola, povera e sferzata dalle bizze della natura, mettendo a nudo le nostre debolezze. Nonostante embarghi criminali e cattiverie alle quali i cubani rispondono ogni volta con la loro arma migliore, sorridono.
“Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di milioni di cubani?”, disse un giorno Teofilo Stevenson, imperituro campione di pugilato di sangue cubano, all’atto di rispedire al mittente le sirene del professionismo provenienti da Miami, solo qualche chilometro più in là. Volevano fargli incontrare Muhammad Alì e fare di lui un’icona del business. Rifiutò, per non tradire se stesso e la sua gente. Non se ne pentì mai. Famiglia povera, quattordici fratelli e un principio di uguaglianza intagliato nei cromosomi. Ancora oggi non c’è palestra all’Avana senza il suo volto. Mijaín è di quella stessa pasta, figlio prediletto del Socialismo cubano che tra mille difficoltà non lascia indietro nessuno e dà una chance di emergere a chiunque.
Anche a chi, proprio come Mijaín, da bambino per aiutare la famiglia trasporta casse di frutta più pesanti di lui da un villaggio all’altro. Dev’essere così, col sudore, che ha scolpito tutta questa volontà. Nell’ambiente della lotta lo chiamano “El Terible” e la sua forza viene da lì, dalle strade polverose di Herradura, tra dimore umili e montagne che sembrano preservarle, la cittadina rurale che ne ha visto la nascita e che ieri si è presa un giorno di vacanza collettiva per ammirare il figliol prodigo diventare un mito. Mijaín, che oggi guarda tutto il mondo dall’alto, non dimentica da dove viene e perché ha intrapreso questa via. Non dimentica, per esempio, che prima della Rivoluzione a Cuba lo sport non esistesse affatto e che a farne un caposaldo della quotidianità fu Fidel Castro. Ed è proprio al Comandante en jefe che Mijaín dedica ogni suo successo. “Affinché – dice – la Rivoluzione possa andare avanti e la bandiera di Cuba donare gioia non solo ai cubani al mondo intero”. Internazionalismo militante.
Mijaín López aveva quindi una missione, un po’ per sé stesso e molto per la sua gente. Quella di entrare nella leggenda dalla porta principale e venirne fuori scalzo. Per rispetto, per lanciare un messaggio. Per ribadire, senza mai scomodare troppe parole, che nessuno dei sette miliardi di abitanti del Pianeta Terra dev’essere lasciato indietro. Mai. Personaggi di questa genetica speciale riconciliano con lo sport e la sua magia. Un ecosistema che soldi, profitto e malaffare provano ripetutamente a deteriorare, e queste Olimpiadi parigine non fanno certo eccezione, ma che i López del mondo difendono con ogni atomo come il bene più caro. Grazie di tutto, campione, il nostro sogno, imperterrito, continua.
Victoria o muerte. E hasta la medalla, siempre.