Una sera di 40 anni fa, Milano: ‘epifania’ di Jorge Luis Borges- di Emanuele Torreggiani

La sera si fece tersa “gelida come la morte e limpida come la gloria”

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Prim’ancora di farsi voce fu sussurro. Tesseva di bocca in bocca dentro le aule immerse nel silenzio solido delle lezioni. Quel sussurro “Lui è qui” era entrato nel cuore del pomeriggio che, trapassato dalle improvvise raffiche di tramontana, andava rasserenando sotto un cielo limpido e gelido. Tesseva il sussurro penetrando lungo gli ambulacri, saliva le scalinate, s’intrufolava nei dipartimenti specialistici, nelle biblioteche di facoltà. Accadde al trillo orario della campana. Nella ampia sala di lettura centrale densa di respiro fu voce ferma. Una ragazza, così si disse nei giorni seguenti, levandosi annunciò a esile tono: “Jorge Luis Borges è a Milano”. Cerbero, il bidello addetto alla sorveglianza, piazzò due colpi secchi di martelletto per richiamare il sordo silenzio. Ora però la studentessa, fremente del proprio arrischio, fu la femmina della sua natura, e alzò a melodia soprana, “atelier Franco Maria Ricci, via Larga, ore diciotto”.

E se ne uscì impettita d’emozione, picchiettando i tacchi mentre Cerbero, preda d’una incontenibile ferocia canina, batteva furibondo il legno sulla cattedra mentre l’aula schiamazzava. Della ragazza, nei giorni che furono, si diceva somigliasse a Medea nella interpretazione di Maria Callas. Così il sussurro montò e fu viva voce. Argomento principale mentre si andava svuotando l’aula magna. Anche i professori ne parlavano in quell’opaco monoculare da sopracciglio inarcato e amare labbra. Lui sarebbe giunto a Milano, da Roma? da Losanna? da Parigi? dal labirinto cretese? dal Baltico dove salparono i vichinghi? Ma no! Lui era alloggiato in un albergo del centro. “Cosa dirà?”, scorreva così la domanda, “cosa dirà?”.

La sera si fece tersa “gelida come la morte e limpida come la gloria”, per dirla all’Hugo che osserva la deposizione del Bonaparte all’Hotel des Invalides.

Il vento in discesa dal Brennero ululava tra gli androni di via Larga. Serena cristallizzava la notte mentre portieri gallonati fissavano i portoni ai gangi di un ferro forgiato da secoli. Una migliaiata gli studenti traversava la piazza di un Duomo rosainfuocato a passione del corpo e s’incamminava al passo per il Corso Vittorio Emanuele. Non andò inosservata. Si ritiene che un buon numero di chiamate in allarme squillarono in Questura. Presto una posse di celerini intercettò gli universitari, che s’affollavano davanti una porticina sulla cui sommità brillava un intenso lume giallo. E non sia oltraggio intenderlo cometa. Lui sarebbe giunto di lì a poco si andava dicendo. E ancora dopo un’ora fasciati dalla tramontana mentre i celerini andavano smistando il traffico veicolare. Infine la mastodontica nera Rolls Royce dell’editore appontò in un silenzio scosso dal fruscio delle pagine che venivano schiuse. Lui scese.

Sorrideva guardando tutti dal fondo dell’immensa cecità e Maria Kodama lo avvolse in un cappotto cammello offrendogli il braccio. “Vi posso vedere”, disse. “Il vostro entusiasmo, che certo non mi merita, mi illumina e ve ne sono grato”. Entrò. Lo studio dell’editore non era che un bugigattolo per pochi intimi. Quella migliaia si raggrumò a corpo unico per sentire le sue parole che giungevano ripetute in un fitto passa parola dalle file avanti alle ultime e rimanevano sospese tutt’intorno, esattamente così dipingeva Chagall. Parlava di Dante. Pareva che si fossero incontrati in ascensore. “La mia poesia davanti ad un’opera di tale maestà non è che una manciata di sabbia”, disse. “Una manciata di sabbia”, ripeté per diamantare l’immagine. Una manciata di polvere d’oro.

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