Tour de France: Romain Bardet, un Don Chisciotte in maglia gialla

Splendida affermazione dello scalatore transalpino

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Ci sono ciclisti assai particolari che godono di una peculiarità tutta loro, hanno un fascino irresistibile che è figlio delle loro sconfitte. Non si spiega altrimenti l’amore che il popolo del ciclismo riservi a ragazzi che hanno fatto delle meravigliose battaglie perse la loro cifra stilistica; donchisciotteschi cavalieri erranti del pedale che trovano sempre il modo di non vincere praticamente mai avvolti in un’aria triste ma che triste non è. Uno di questi è Romain Bardet, l’ex predestinato di Francia chiamato a riportare il Tour de France in patria e, invece, finito a sgomitare perennemente all’ombra di altri più scaltri e forti di lui. Oggi ha quasi 34 anni – stessa età di Landa, sempre a proposito di chi ha la sconfitta tatuata sul cuore – e ha già stabilito che altre stagioni agonistiche non ce ne saranno e, pertanto, quello iniziato ieri sarà il suo ultimo Tour.

Un passo indietro. Quando una decade abbondante fa si affacciava alla ribalta insieme all’altra speranza dei cugini d’oltralpe, Pinot, erano in molti quelli convinti che dopo anni di pane duro la Francia avrebbe riassaporato la grandezza ciclistica perduta. Convinzioni legittime perché Bardet, già all’esordio nella corsa gialla dei platani, della lavanda e dei campi di petanque, aveva fatto vedere le sue doti di uomo da corsa a tappe. Scalatore eccezionale, capacità di recupero, grinta a profusione. Tra il 2016 e il 2017, Romain centra due podi in fila negli anni della tirannia del Team Sky, gli antenati pigliatutto dell’odierna compagine Ineos, e con la fine della parabola di Froome, che fece seguito quella di Contador, tutto sembrava essere apparecchiato per il passaggio di consegne. Il tempo di capire cosa avrebbe potuto essere ed ecco che sulla scena ciclistica irrompe come uno tsunami l’odierna generazione dei fenomeni a ribaltare la tavola imbandita per le grandi occasioni. Generazione che riscrive le regole secolari di una disciplina che oggi appare così diversa da quella che avevamo imparato a conoscere.

Bardet, in tutto ciò, ha continuato la sua missione, ciò che gli riesce meglio: andare sempre a tutta, fare pochi calcoli e cavalcare il coraggio. E se non lo si è più visto vincere, se non in rarissime ma esaltanti circostanze, l’amore della gente, il rispetto in gruppo e la devozione dei gregari sono medaglie al petto che non hanno mai smesso di crescere, facendo di lui un personaggio che tra cinquant’anni sarà ricordato più di molti colleghi dal palmares più ricco. Anche perché Romain è ciò che di più atipico si possa trovare nell’ambiente. Se gli chiedi cosa farebbe di mestiere se potesse rinascere, la risposta è il deejay o lo scrittore. E se, poi, ti capita di incalzarlo sulle spinose questioni di politica internazionale, il buon Bardet non perde un colpo: sa tutto, perché studia tutto. Tanto da prendersi pure una laurea in economia e di svolgere il tirocinio presso la squadra di rugby del Clermont-Ferrant, più o meno la sua città, per poi dire che il ciclismo, da quel mondo ovale così rispettoso, avrebbe davvero molto da imparare. Come in ogni storia della gente comune che si rispetti, anche la sfiga ci ha tenuto a mettere il becco. Per esempio, quando il Giro d’Italia, che non sarà il Tour ma pur sempre il Giro resta, lo vinse il non irresistibile Hindley e Bardet, fin lì il migliore di tutti in salita, dovette abbandonare anzitempo e fare ritorno a casa malconcio. Tutto normale, insomma.

Lo sport, però, trova sempre il modo di restituire qualcosa di prezioso a chi si affanna per dargli lustro e, al novantesimo minuto di una partita lunga vent’anni, anche per Bardet il momento dell’incasso è finalmente arrivato. Ieri era a priori una giornata eccezionale, perché per la prima volta il Tour sarebbe partito dall’Italia. A Firenze in una cornice strepitosa da fare chinare il capo anche agli orgogliosi francesi. Prima tappa insolita e decisamente impegnativa, lunga, tanta salita, caldo, fatica. Roba alla Bardet. Così, mentre i grandi o presunti tali si controllano, Romain piazza uno scatto dei suoi, si riporta sui fuggitivi della prima ora – ovviamente in salita – e con il compagno van den Broek, monumentale e si sbaglia per difetto, si inventa qualcosa a cui avrebbe potuto crederci soltanto lui. Resistere all’arrembaggio finale del gruppo lanciato all’inseguimento a tutta velocità, con la strada più piatta e più dritta del mondo. Il peggio per fare da lepre in sella ad una bicicletta. Ai meno dieci chilometri dal traguardo il vantaggio è di sessanta secondi, tradotto significa morte certa. Ma Bardet è uno che nell’epoca della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non consulta manco il frequenzimetro perché per regola di vita si pedala sempre a sensazioni e di fronte alla morte risponde sempre con un’arma micidiale, il cuore.

Denti serrati e pancia a terra, il tandem del Team DSM spinge, dopo duecento e passa chilometri arroventati da caldo e sole, rapporti che nemmeno pensa di avere e nell’incredulità generale, ma non la nostra che in quelli folli come lui potremmo riporre la vita dei nostri figli, alla fiamma rossa giunge con ancora un gruzzoletto di pochi preziosi secondi da difendere. Quelli che mancano sono tra i mille metri più belli degli ultimi anni raccontati dal ciclismo. Van den Broek pare una moto, Bardet in viso dimostra il triplo dei suoi anni, incita il compagno e rilancia trovando energie chissà dove. L’arrivo è in parata. Bardet, il capitano, si mette in testa, dà un ultimo sguardo agli inseguitori ormai battuti, allarga le braccia in un abbraccio per accogliere nel momento più bello della sua vita sportiva anche il fidato gregario che esulta con lui. Mani in testa per entrambi, lo sguardo di chi si è reso conto di averla combinata grossa e tanto giallo intorno. Quello della maglia simbolo del primato del Tour che Bardet indossa per la prima e forse ultima volta della sua carriera quando sembrava che, ormai, gli dèi si fossero scordati di lui.

Ma questa volta il Dottor Bardet si sbagliava. Gli dèi del pedale celebrano giustamente i Pogacar e i Vingegaard ma, sotto sotto, a cena ci andrebbero con i Bardet del mondo. In una di quelle trattorie della Borgogna dove le tovaglie sono a quadri e le portate sono saporite affinché il vino non basti mai. La stessa scelta che faremmo anche noi.

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