Oggi è il gran giorno. La stagione ciclistica, per la verità, è già iniziata da un po’, in un calendario che non conosce soluzione di continuità, ma sono in tanti quelli che, fino a quando non c’è la Sanremo, è ancora off season. In ogni caso, a fare sul serio si comincia qui. Sui Capi, sulla Cipressa, su e giù dal Poggio, in Via Roma.
Pioverà, e non succede da una decade di assistere ad una gara bagnata, e ciò potrebbe un po’ rimescolare le carte delle previsioni della vigilia. In condizioni normali non si vede come il vincitore possa non essere incluso nel ristretto gruppo che annovera Pedersen, forse il più quotato, van der Poel, Pogacar, Philipsen e Matthews. Forse Pidcock. In casa Italia, purtroppo, non c’è molto da mettere sul tavolo anche se Ganna pare sia in grande forma e con la Classicissima ha pure un conto aperto. Magari potrebbe regalarsi una vittoria da finisseur, con sgasata all’ultimo chilometro alla Tchmil, per chi se lo ricorda. Non sarà facile. Ma, appunto, pioverà e neppure poco, con il ventaglio dei papabili protagonisti che potrebbe allargarsi.
Anche il 23 marzo del 1991, data dell’edizione numero 82 della corsa, Giove Pluvio aveva deciso di essere un fattore decisivo. Trecento chilometri in un clima assai poco raccomandabile, quel giorno, perché il cielo riversa sul percorso tutta l’acqua possibile. Per l’Italia, tutta un’altra Italia rispetto ad oggi, c’è molto per cui sorridere, visto che al via ci sono atleti formidabili del calibro di Bugno, Argentin e Fondriest, per citare solo quelli maggiormente accreditati dei favori del pronostico. Perché, a guardare il foglio firma, c’è pure il Diablo, come lo hanno soprannominato gli aficionados. Claudio Chiappucci, piccolo e pugnace (fin lì) gregario che solo qualche mese prima sulle strade del Tour si era inventato campione, quando ci è mancato poco che mettesse tutti nel sacco, salvo poi cedere la maglia gialla sul filo di lana a LeMond.
Poco talento, stile rivedibile in sella, fortuna non troppo amica ma cuore, fantasia e coraggio in quantità industriale. Claudiò, come lo chiamano i francesi che lo adorano visceralmente per il suo donchisciottesco modo di interpretare la bagarre, ha le chance di vincere una Sanremo praticamente azzerate, non fosse altro per l’orografia tendente al piatto che mal si sposa con uno scricciolo scalatore come lui. Ma lo sport, e il ciclismo degli anni ’90 non faceva certo eccezione, non è affatto scienza esatta e Chiappucci fa di un pomeriggio teoricamente ostile l’acme della carriera, scrivendo una pagina di ciclismo tra le più emozionanti di sempre. Alla maniera del Diablo.
Scollinato sul Turchino, quando ancora manca una vita alla fiamma rossa dell’ultimo chilometro, la resa dei conti, il varesino di Uboldo rompe gli indugi, tra nubi che riversano acqua a catinelle, e si lancia in discesa in un’azione che solo uno come lui che dà del tu all’improvvisazione può non percepire come folle. Insieme a Claudio, ed ai suoi quadricipiti in forma strepitosa, ci sono il compagno nonché vecchia volpe del pedale Bontempi e quattro corridori assolutamente non banali pronti a raccogliere il suo guanto di sfida. Tra loro, infatti, ci sono Sorensen e Mottet, clienti assai scomodi. L’ultimo segmento di gara è storicamente quello dei Capi, prima, e del Poggio, poi, in vista della città dei fiori. Piccole asperità rese terribili dalla quantità di chilometri già messi alle spalle dai corridori e, per l’occasione, dal clima nefasto di una giornata resa anomala dal meteo che a dire poco primaverile si pecca di ottimismo.
Chiappucci, tra mille dubbi – più per chi guarda in poltrona che suoi e, tra questi, il gruppo dei favoriti che insegue senza fare sconti – ha una certezza. Se vuole vincere la corsa deve imboccare il vialone d’arrivo in solitaria. Portare con sé qualcuno in volata, novantanove volte su cento, significherebbe seconda piazza. Allora, ogni frazione di salita, fossero pure una manciata di metri, è una feroce frustata pancia a terra. La tattica del logorio. Infatti, uno per uno si staccano tutti dalla ruota di un Chiappucci diabolico oltre il suo nome, tanto che ai piedi del Poggio è il solo Sorensen che prova caparbiamente a restargli incollato alla ruota. Chiappucci è in trance agonistica e, quando mancano meno di duemila metri allo scollinamento, al capitano della Carrera passa davanti agli occhi, nitidissima, l’occasione di una vita.
Uno sguardo di sfida al rivale, tanto per testare la sua condizione, un’aggiustatina al cambio e un ultimo respiro, prima dello scatto decisivo. Chiappucci scalcia con tutta la forza che ha sulle pedivelle, è un puntino piccolo – che il compianto Gianni Mura era solito chiamare affettuosamente Calimero – che si allontana inesorabile tra pioggia e nebbia. La picchiata verso Sanremo è un mix di incoscienza e voglia di vincere, con il Diablo, discesista di razza, che fa sembrare un cavatappi bagnato, come il Poggio di quel pomeriggio di gloria, un esercizio financo banale. Gli avversari, fradici e sfiancati, lo rivedono solo al traguardo che sprizza gioia da ogni poro, al termine di una delle imprese più luminose del ciclismo moderno. Quando Jonah Lomu, esagerato campione di rugby scomparso troppo presto, nel celebre claim pubblicitario di quegli anni diceva ‘nothing is impossible’ probabilmente faceva riferimento ai Chiappucci del mondo. I visionari, geniali e naif, che coltivano dove chiunque altro è convinto non possa crescere nulla.
Sanremo ‘91, una vita fa e sembra ieri. Il Diablo non ha vinto molto in una carriera, la sua, limitata dalla compresenza dell’immenso Indurain di quell’epoca e da tracciati troppo spesso penalizzanti per i grimpeur di razza poco avvezzi ai lunghi rapporti come lui. Per molti, quindi, Claudio è l’eterno secondo, quello delle battaglie valorose, degnamente combattute ma senza lieto fine. Può darsi. Ma se il ciclismo è uno sport meraviglioso è proprio grazie ai Chiappucci del pedale. Personaggi un po’ così, che quando lasciano il segno è per sempre, come i diamanti. Come quella Sanremo che non ci siamo ancora stufati di riguardare come fosse sempre la prima volta.
Buona Classicissima a tutti.