Il ciclismo toglie, il ciclismo dà. Ma quando qualcuno vince un Giro d’Italia nello stesso posto – il terribile Colle delle Finestre, tra pendenze in doppia cifra e polvere che indebolisce il respiro – in cui lo aveva perso in preda ad una crisi di nervi e di gambe un lustro prima, questa volta con il cervello che sale in cattedra, è un tripudio per la disciplina che glorifica la fatica bruta ma non disdegna, appunto, l’intelligenza.
Simon Yates, gemello di Adam con già trentadue primavere sulle spalle, nel 2018 aveva visto infrangersi il sogno rosa che pareva destinato ad essere suo e cambiare il suo peso specifico, in una di quelle giornate che nessuno si meriterebbe di vivere. Una Vuelta portata a casa l’anno dopo per provare a smorzare la cocente delusione, ma quella ferita italiana non gli si è mai cicatrizzata del tutto.
Un Giro bruttino fin qui, con la classifica delineata più dalle cadute che dai quadricipiti, aveva un’ultima chance per rinfrancarsi, riportando i corridori sulle Finestre con i giochi ancora tutti aperti. In rosa, infatti, questa mattina c’era il baby-prodigio Del Toro, divenuto capitano della UE dopo le disgrazie di Ayuso, finito a terra e rialzatosi con un ginocchio malconcio che gli ha suggerito il ritiro. A solo una manciata di secondi di ritardo Carapaz, il vecchio marpione, e ad un minuto abbondante, appunto, Yates. Curiosamente, il gemello Adams è al servizio del rivale messicano e chissà cosa si saranno detti in corsa. Simon, questa giornata se l’era segnata sul calendario il giorno della presentazione dell’edizione numero 108 della corsa. Come le volte in cui passa il treno della rivincita.
Per la verità, anche un suo compagno, van Aert, cercava il riscatto. Il belga, che ha stretto un patto con la sfiga come nessuno mai nella storia di questo sport, si è presentato al via dall’Albania con l’idea di fare incetta di tappe, ma un Pedersen super gli ha levato il sorriso in più di un frangente. Un classico. Pure per lui, oggi, era quindi l’ultima chance, seppur in veste di gregario di lusso, per lasciare un segno indelebile. Dentro nella fuga della prima ora come punto d’appoggio per il capitano Yates, van Aert si è reso protagonista del colpo del ko all’armata emiratina che ha permesso al britannico di ribaltare le sorti della corsa. Ha atteso Yates in cima al Colle delle Finestre e poi ha azionato le sue gambe nella versione dei giorni migliori per scavare il vuoto tra loro e il gruppetto della maglia rosa sempre più allo sbando e incapace di replicare l’andatura del fiammingo. In precedenza, però, era stato Yates in prima persona a guadagnarsi la pagnotta. Con intelligenza, anche questo un marchio cromosomico, sfruttando le beghe da cortile tra un Del Toro malamente gestito dal team e un Carapaz dalla gamba buona ma non ottima come qualche giorno fa, Simon allunga in salita e imposta un’andatura costante e senza cedimenti che gli consente di scollinare sulla salita iconica di giornata vestendo la maglia di leader virtuale. Prima che van Aert cementasse il risultato acquisito in salita con una progressione nel tratto vallonato che conduce al Sestriere dove per fare la differenza serve proprio la sua potenza.
Per la Visma, squadra scaltra per genesi e tradizione, è l’ennesimo piano ben riuscito, mentre per Yates è la resa dei conti con la sorte. Ad uscirne a pezzi è, al contrario, la UA che quando Pogacar non c’è dimostra in più di una circostanza di essere compagine più soldi che costrutto. A Del Toro, invece, la scoppola potrebbe risultare assai utile in futuro se avrà l’intelligenza di capire cosa gli è capitato intorno in queste tre settimane di ribalta planetaria. Il ragazzo ha dalla sua una classe cristallina e un’eleganza in sella invidiabile ma non pare brillare per umiltà e, ciò che è peggio, acume tattico e potrebbe costargli caro.
In definitiva, il Giro che ha perso troppo presto gente come Landa (buona guarigione), Hindley, Ciccone, Roglic e Ayuso, con un colpo di coda forse imprevisto è riuscito nell’intento di raccontare una storia di sport meravigliosa nella più classica delle zone Cesarini. Quella di Yates, un’andata e ritorno dall’inferno con il lieto fine. Chiosa finale obbligatoriamente dedicata a Caruso e Pellizzari.
Trentasette anni, il primo, e una carriera lunghissima troppo spesso al servizio dei suoi capitani più che di sé stesso, sfruttando la sua dote migliore, la regolarità certosina, ha strappato un quinto posto finale (primo degli italiani) che vale tantissimo. Anche perché nei piani del team avrebbe dovuto fare da chioccia a Tiberi, anch’esso limitato da una brutta caduta. Dietro al siciliano in classifica generale c’è proprio Pellizzari, sesto. Partito per scortare Roglic in salita, s’è ritrovato capitano di fatto e ha mostrato qualcosa di interessante in prospettiva. Forse non sarà il nuovo Pantani, e ci si augura di sbagliare, ma con la penuria di talento che c’è oggi in Italia sarebbe molto importante crescesse ulteriormente come uomo da grandi giri. Dove il solo Caruso è garanzia.
Bravissimo Simon. La tua è una maglia rosa che rende giustizia ad un gran bel corridore, oltre che al ciclismo.