Giro delle Fiandre, meravigliosa brutalità (e preview)

Una corsa mitica, quella che spesso porta un fiammingo da bambino a preferire la bicicletta al calcio

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Campanilismo, identità e apparenza. Sono le prime tre parole che ci si immagina di dover dire all’atto di raccontare ad un neofita cosa incarna il Giro delle Fiandre e, soprattutto, cosa può significare per un fiammingo la domenica della corsa che più di ogni altra al mondo sente propria. Appiccicata alla pelle come colla. Spesso, il motivo per il quale un fiammingo da bambino è portato a preferire la bicicletta alla palla. Un giorno, infatti, la Ronde van Vlaanderen, o più semplicemente De Ronde, potrebbe essere sua. Una religione che trova la sua genesi all’inferno, e non è affatto un ossimoro. Dici Fiandre e dici muri, oggi saranno diciassette, quelli che i corridori sono chiamati a domare sulla strada che porta a Oudenaarde. Prima, però, anche sette settori di pavé che andranno ad aggiungere ulteriore acido lattico ai muscoli sfiancati da chilometri, rilanci, salite, sconnessioni, vento, polvere e, ci si augura di no, freddo e pioggia. L’inferno, appunto, del Nord. Si chiama così perché è proprio così.

Intorno, però, è liturgia, il giorno di festa atteso trecentosessantacinque giorni da un popolo la cui simbiosi con il ciclismo esplora vette da primato. Qui gli dèi si chiamano Rik Van Looy, Roger De Vlaeminck e Johan Museeuw e Tom Boonen, più che Maradona e Ronaldo, perché uomini capaci di essere, a più riprese, meravigliosi profeti in patria. Cacciatori di monumenti con il vizio della vittoria made in Flanders, questi marziani, e il pubblico del ciclismo più esigente al mondo, i fiamminghi, non dimentica mai i suoi eroi. Prima domenica di aprile che, se a volte è pure Pasqua, significa circoletto rosso sul calendario, il giorno della Ronde. La cui genesi risale al lontano 1913 e vanta già 108 edizioni alle spalle, 109 con quella di oggi. E, sempre con oggi, van der Poel, fenomenale detentore, potrebbe diventare il primo ciclista di tutti tempi ad aver vinto la corsa per quattro volte. Neerlandese a casa dei cugini, non serve aggiungere altro.

Ideata dal giornalista Karel van Wynendaele, la prima pioneristica edizione vide la partecipazione da soli trentasette atleti su un percorso di più di trecento chilometri che abbracciavano a mo’ di spot tutte le località più iconiche delle Fiandre. Tra le tante, una delle particolarità che la rende unica è legata al fatto di non aver subito interruzioni durante il secondo conflitto mondiale. Una tradizione più forte delle bombe. Oggi si parte da Brugge, al solito dalla rappresentativa piazza del suo mercato, e i chilometri in totale da percorrere sono duecentosettanta. Di questi, nel solco della tradizione inviolabile, i primi cento sono pianeggianti ma è con il settore di pavé di Doorn che la contesa si fa eroica. Il primo dei tre passaggi sull’Oude Kwaremont, a proposito di consuetudini, significa che, da lì al traguardo, i corridori faranno fatica pure a respirare, chiamati ad un su e giù senza soluzione di continuità, tra pendenze ascendenti in doppia cifra e quadricipiti resi duri come la pietra.

I nomi sono quelli che risuonano nella mente degli aficionados come il più familiare dei ritornelli: Paterberg, Koppenberg, Taaienberg. Muri, ovviamente, dove gli aspiranti vincitori sono chiamati ad esibire gli assi sul tavolo da gioco senza più poter bluffare. Quando la seconda ed ultima ascesa di giornata sul Paterberg – poche centinaia di metri resi infiniti da pendenze sopra al venti per cento poste a poco più di dieci chilometri dall’arrivo – dirà chi, per tutto il prossimo anno potrà fregiarsi del titolo di Leone delle Fiandre. Non a caso, perché è proprio il leone il simbolo impresso a imperitura memoria sul drappo fiammingo. Bandiera che colora di giallo la domenica santa del ciclismo. Detto di van der Poel, già vincitore della Sanremo e primo dei favoriti oggi, sarà interessante vedere cosa proverà ad inventarsi Pogacar per restituire al rivale la pariglia dopo la sconfitta patita nella città dei fiori quindici giorni fa.

La loro superiorità per questo tipo di corse rende difficile allargare i favori del pronostico a qualche altro collega, considerato che van Aert non sembra essere nella sua migliore versione possibile e che Pedersen tutta quella esplosività sui muri necessaria, seppur atleta formidabile, non l’ha ricevuta in dono da madre natura. E se a Ganna è lecito chiedere di restare in lizza fino almeno ai duecento chilometri di gara e, salvo miracoli, nulla più – ma pagheremmo di tasca nostra per esserci sbagliati – per il podio devono essere considerati, oltre al succitato Pedersen che sulla carta è il più forte degli umani, Powless, il recente vincitore della Dwaars, Jorgenson, che potrebbe ambire ad essere più che il gregario di un involuto van Aert, van Eetvelt, giovane ma corre in casa significa vittoria o morte e, infine, due vecchie volpi come Stuyven e Wellens.

Le Fiandre sono un ecosistema a sé che vive un’affascinante dicotomia che trova il suo acme proprio la prima domenica di aprile. Uno spaccato di mondo alle porte del nord dell’Europa reso gentile, financo poetico, dalla presenza di casette colorate con tetti spioventi e slanciati che graffiano il cielo, da piazze ornate da gerani color rosso fuoco e dai cigni che sguazzano indisturbati nelle acque pulite di canali che scorrono lenti. Insieme, a fare da contraltare, uno spaccato di mondo dove la gente letteralmente impazzisce per una manifestazione d’agone brutale, al limite delle forze umane. Non è una contraddizione, ma è la magia della Ronde.

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