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Dall'archivio:

Georges Simenon, il narratore oceanico. Di Emanuele Torreggiani

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In quell’oggi di trent’anni fa, 4 settembre del 1989, muore a Losanna Georges Simenon. Trascrivo dal sito al lui intitolato alcune cifre. Tradotto in 58 lingue, oltre 700 milioni di libri venduti, 200 film e telefilm ridotti dai suoi scritti che ammontano a 450, cui si aggiungano 3000 reportage giornalistici e un fondo non ancora quantificato di migliaia di fotografie. Ne ho una, a schermo del mio portatile, terribile e bellissima. Prussia orientale, crinale del ’30. In quel bianco e nero che ovunque ci circonda, la nostra ombra quotidiana, quattro case di legno di cui si contano le assi, i tetti impagliati, le piccole finestre dai vetri ondulati, e, in attesa sullo sterrato polveroso, davanti ad una baracca con la scritta Volkskuche, un nugolo di uomini donne bimbi. Tantissimi bimbi scalzi. La scritta è in tedesco ed in yddisch, la lingua degli ebrei orientali, in quell’oriente che è del nostro occidente. Uno shtetl, così si chiamava il villaggio ebraico. Non so dove si trovi esattamente, non si saprà mai, la foto non dà indicazioni precise. Si vedono tutti nei caffettani, le tracolla di vecchia pelle raggrinzita, le scarpe scalcagnate, le madri infagottate in grembiuli e scialli, s’intuiscono i rammendi, le rappezzature, i bimbi infagottati in abiti da riporto. Tutti in attesa che apra la mensa popolare.

Se si leggesse Joseph Roth, i fratelli Singer, Isaac e Joshua, di equivalente bravura, se ne assorbirebbe anche l’odore di abissale povertà. Ed ogni povertà è diversa dall’altra, la lezione che arriva dal conte Tolstoj, Anna Karenina, è ben viva pur così, drammaticamente difficile, difficilissima da narrare. Occhio aperto, polso fermo nella lingua pulita e allora, allora si coglie l’uomo nudo. Nudo. Semplicemente svestito da ogni pudore, vergogna, finzione. Carne viva. Due bambine fissano l’obbiettivo. Tra gli otto ed i quattro anni. La grandicella col suo braccio tiene la sorellina per una spalla. Una protezione esigua che non basterà quando, di lì a pochi inverni, arriveranno i soldati del Reich e li condurranno tutti al forno. Di quei villaggi neppure la polvere rimane. Solo nei libri si legge che furono. Solo nei libri. I libri, oggi così dileggiati. Ma sia. Quante notti ho passato guardando questa foto. A volte mi coglieva la certezza di aggirarmi dentro la foto. Vedevo nitidamente le barbe degli uomini filigranate di bianco, le donne dai seni pesanti e le bocche sdentate che si coprivano parlando con la mano, nel fondo dei loro occhi il terrore dei pogrom, che con cadenza secolare accompagnava le loro misere vite. Spesso mia moglie mi teneva compagnia, mi accendeva una sigaretta ed io le dicevo quello che vedevo, mia moglie che compirebbe posdomani quarantanove anni e solo Dio sa dove sia ora, solo Dio sa parlare della morte, e ci parla in silenzio. O, perlomeno, così è per me. Nessun scrittore ci dice cos’è la morte. Ci dice com’è. Ed ogni morte è individuale, pur essendo così comune. Il fatto più comune della storia. A volte copriva lo schermo con la mano chiedendomi se fossi sicuro che anche quelle due bimbe sarebbero passate per il camino. Certo. L’uomo è anche questo qui. Un uomo della mia età, di allora, quarantenne, laureato in filosofia, filologia, medicina, ingegneria, che nella sua impeccabile divisa di ufficiale nazista, fumando una sigaretta di tabacco egiziano, li osserva sfilare sui carri e non vede uomini ma insetti. Zek. I bambini che urlano vengono abbattuti sul posto. Si strascica il passo sulla polvere, sulla neve intrisa di sangue. Non lo so. Non so rispondere. Credo che con sincerità nessuno lo sappia. Viene meno quello che Don Luigi Giussani, a lezione, sgolandosi con quella sua voce arrotata dal toscano, definiva “la metafisica dell’esperienza”. E così andavano stramazzando le ideologie, i tentativi di costruire “l’uomo nuovo”, di cui il Novecento, aveva portato a compimento. E invitava i suoi studenti a leggere romanzi. I romanzi dove c’è l’uomo. Dove si va incontro a quell’uomo lì. E quell’uomo lì, il personaggio ti spiega com’è la sua vita. Non cos’è, ma com’è. E in quel com’è, tu, lettore, vieni riempito di quella esperienza. E diventa, così, anche la tua. E spiega anche la tua di vita. Simenon ne ha scritti centinaia, ed in ciascuno si coglie l’uomo nudo. Nella sua bellissima e terribile verità. Io amo Simenon. Spero di vivere quel lungo sufficiente per leggere tutti i suoi libri. E alla fine si potrà dire, ah, era tutto così semplice. E sarà quel dire, appagante. La grande letteratura anticipa ogni morte individuale. Te ne fa cogliere il profondo abissale respiro. George Simenon, 1903 Liegi; 1989 Losanna. Tolle, legi.

Emanuele Torreggiani

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