Carlo Pisani Dossi: un insolito scapigliato. A cura di Luciana Benotto

Autore precoce, scrisse a soli diciannove anni un volumetto di memorie intitolato “L’altrieri” un testo autobiografico nel quale già emerge il suo personalissimo stile fatto di un italiano che non si era mai letto

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Sorge in quel di Corbetta la quattrocentesca villa Pisani Dossi, oggi di proprietà degli eredi del conte Carlo, che vi trascorse i suoi ultimi anni, dopo un’esistenza tutt’altro che banale. Lui stesso scrisse infatti di sé, che era nato settimino e senza l’assistenza di una levatrice, da una madre che, alla fine del marzo 1849, fuggiva dalle ultime cannonate della battaglia di Novara combattuta tra i Piemontesi di re Carlo Alberto e gli Austriaci comandati dal maresciallo Radetzky.

E poiché era venuto al mondo a Zenevredo, un paese dell’Oltrepò pavese, il cui nome significa “ginepreto”, vide predetta proprio da queste cause contingenti, la sua singolare natura e il suo destino intricato, per l’appunto, come un ginepraio. Ancora bambino diede segni precoci delle sue inclinazioni letterarie che gli fecero sfornare, a partire dal 1861, appena dodicenne, versi, poemi in ottave, una commedia per ragazzi e giornalini che propinava ai familiari e agli amici.

Fu proprio questa sua passione qualche anno dopo, a farlo avvicinare ad un gruppo di giovani scrittori milanesi e piemontesi legati da abitudini anticonformiste e ribelli, che conducevano vite sregolate, che amavano abbondanti libagioni a base di vino, l’uso di quella droga che all’epoca era di moda: l’assenzio e il gusto dello scandalo.

Erano costoro i cosiddetti scapigliati, giovani che scrivevano storie che all’apparenza iniziavano come normali, ma che nel loro svolgersi si trasformavano in vicende assurde che raccontavano incubi, il suicidio, la morte e situazioni abnormi come l’amore necrofilo. Furono scrittori, ma pure pittori, che fusero in tutt’uno vita, arte e morte: molti, infatti, finirono i loro giorni uccisi dall’alcol o suicidi o avvelenati dai colori che essi stessi componevano, lasciando in tal senso, un messaggio esistenziale di inquietudine e insicurezza, specchio dei tempi che vedevano il consolidarsi di una borghesia per la quale il valore più importante era il denaro. Insomma, furono gli ultimi romantici. E se anche il nostro giovane conte Carlo ebbe un destino migliore, vale comunque la pena di curiosare un po’ in quei suoi primi anni legati all’esperienza letterario scapigliata.

Autore precoce, scrisse a soli diciannove anni un volumetto di memorie intitolato “L’altrieri” un testo autobiografico nel quale già emerge il suo personalissimo stile fatto di un italiano che non si era mai letto, tutto giochi e stranezze lessicali e sintattiche, deformazioni espressive, asprezze ritmiche e timbriche, un impasto di parole latine, di dialetto lombardo, di vocaboli tecnici e gergali. Il suo modo di essere scapigliato e quindi anticonformista, consistette nel suo sperimentalismo linguistico che ne fa un Carlo Emilio Gadda ante litteram. La sua vena narrativa, che si esaurì in un arco di tempo che va dal 1868 al 1887, comprende opere quali: “Vita di Alberto Pisani” un altro testo autobiografico; “La colonia felice” un romanzo-favola allegorico didascalico; dei racconti, tra i quali “Antonietta” in cui narra l’amore necrofilo di un aspirante suicida e “Le note azzurre” un ricchissimo zibaldone.

Il conte Pisani Dossi si dedicò anche al giornalismo collaborando con diverse testate tra le quali “La Riforma” che all’epoca prestava molta attenzione all’azione politica dello statista Francesco Crispi, grazie al quale Dossi intraprese una brillante carriera diplomatica che lo vide prima, ministro plenipotenziario ad Atene, dove un’altra sua passione: l’archeologia, poté trovare ampia soddisfazione, permettendogli di ampliare la sua collezione privata; poi console a Bogotà dove invece si innamorò di Carlotta Borsani, che sposò e dalla quale ebbe tre figli; infine, negli ultimi anni di attività politica del primo ministro, Dossi divenne governatore dell’Eritrea.

Abbandonata la carriera diplomatica alla caduta del governo Crispi, avvenuta dopo la disfatta del nostro esercito sopraffatto dalle forze del negus Menelik ad Adua, scontro che costò la vita a ben 7.000 soldati italiani, si ritirò nella villa di Corbetta insieme alla famiglia, dove poté continuare a coltivare la sua passione per i reperti antichi, che lo condusse alla scoperta di quattro necropoli sia in terreni di sua proprietà che in paesi vicini, ma anche a terminare la splendida villa del Dosso sul lago di Como, dove si ritirava d’estate ospitandovi parenti ed amici, ma anche personalità del mondo politico e artistico dell’epoca.

A cura di Luciana Benotto

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