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Dall'archivio:

Addio a Umberto Lenzi, che ha dipinto i cattivi irridendo il buonismo

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Ticino Notizie rende omaggio al grande Umberto Lenzi

Se n’è andato Umberto Lenzi, il cinema italiano è (ancora) più solo. Dal poliziottesco fino al cinema di guerra e all’horror, Lenzi è stato uno dei più grandi sperimentatori di quello che, oggi ben rinchiuso nelle preziose nicchie, è il cinema di genere.

Tra le grandissime rivoluzioni del regista, nato a Massa Marittima nel 1931, c’è quella di aver portato sul grande schermo la violenza, il cinismo, la cattiveria, la mordacità. In altri termini, di aver portato la realtà sugli schermi delle sale cinematografiche dell’Italia che s’era educata alla Rai pudica e democristiana di Bernabei. L’immaginario pop italiano (e internazionale) deve a lui decine di maschere e icone.

Dei suoi film, moltissimi sono ancora oggi dei veri e propri cult. Che intrecciano la loro storia, fatalmente, con quella degli attori che li hanno interpretati. Prendete “Milano odia, la polizia non può sparare” del 1974. Con Tomas Milian, nella parte dell’odioso criminaluccio che è Giulio Sacchi (che poi si evolverà fin nel Monnezza, che però sostituisce alla bovina stupidità e alla ferale violenza del milanese, il “cuore” e l’ironia del borgataro) ed Henry Silva, maschera di porfido, tetragona a ogni espressione, che interpreta il commissario che gli dà la caccia e che anticipa i personaggi di Maurizio Merli, il “commissario di ferro” per eccellenza e rivale di Milian non solo al cinema ma anche nella vita. Solo Umberto Lenzi, in Roma a Mano Armata e ne Il Cinico, l’Infame e il Violento, riuscì a metterli insieme. Anticipando e ispirando capolavori come Heat.

Alcune delle scene di Milano Odia sono passate alla storia, per la violenza senza soluzione, per il dramma insoluto di una rabbia demoniaca davvero, che non trova requie in nulla, non ha temperamento manco nella pietà verso i bambini. Un concerto d’orrore che è più reale di molto (post) neorealismo, che è più inquietante di mille film del terrore, propriamente detti. In questo film, Lenzi dipinge un terrificante affresco della decontestualizzazione, della violenza insensata, una tela del Male a cui prestò il volto quel genio che è stato Tomas Milian. Ma Lenzi ha frequentato decine di “sottogeneri”. Ha inventato la via italiana al noir, con il gialloerotico, mostrando sui teloni delle sale gremite (all’epoca i cinema contavano fino a 3mila posti) i vizi privati e le paturnie torbide dei borghesi dell’epoca e di ogni tempo. Ha tenuto a battesimo il genio di Dario Argento (di cui diresse la sceneggiatura di La Legione dei Dannati) e camminò in deliri più o meno lucidi, attraversò mode e le rielaborò, fece infine un’importante escursione nel cinema cannibalico, che però lui non amò davvero.

Il fil rouge della sua opera sta nel mostrare l’aspetto oscuro dell’umanità. Un vecchio proverbio meridionale assicura che è meglio temere i vivi, rispetto ai morti. Ecco, Lenzi ha mostrato al cinema quello che è l’uomo, senza infingimenti consolatori e senza concedere nulla a quelli che oggi si chiamano buonismi, da qualunque parte essi venissero. Come lo scrittore russo Ivan Bunin collezionava, ossessivamente, i ritagli di giornale che riportavano le cronache dei crimini più abietti, per sganciare in faccia all’intellingencjia russa i siluri contro il mito del buon selvaggio di russoviana origine, così Lenzi nei suoi film ha mostrato che l’umanità è molto più stupida, violenta e bestiale di quanto raccontino favolette e poesiole interessate.

Lenzi, senza intenti politici ma unicamente artistici, ci ha insegnato a guardare in faccia alla realtà. Magari a riderci su, esorcizzandola a ogni battuta del borgataro, a ogni ceffone del poliziotto, a ogni proiettile sparato da un’auto in corsa.

Giovanni Vasso (www.barbadillo.it)

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