Wimbledon: oggi Berrettini-Alcaraz. Dov’eravamo rimasti, Matteo? Di Teo Parini

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Matteo Berrettini non incarna la nostra idea di tennis e, lo ammettiamo, a volte fatichiamo a comprendere come abbia potuto raggiungere risultati enormi con così pochi dardi nella faretra. Gli amanti dei numeri, all’uopo, provano a venirci in soccorso: l’azzurro, infatti, nelle sue più redditizie cavalcate Slam – vedi Wimbledon 2021 ma non solo – non ha mai battuto un Top 10 e, checché se ne dica, è un discreto colpo di fortuna. Ma non basta come giustificazione.

Perché Zverev, che ha liquidato ieri con relativa tranquillità, pur non essendo più il giocatore che fu prima di distruggersi la caviglia, sull’erba vale molto più del suo ranking attuale e ci ha lasciato lo stesso le penne.

Probabilmente l’erba, anche nella sua versione odierna non particolarmente infida, gli perdona in parte i deficit tecnici dal lato del tremebondo rovescio, dove uno slice pessimo allo sguardo ma sufficiente nel rendimento è una scialuppa di salvataggio per stare alla larga dal colpo bimane che a questi livelli è impresentabile. Anche i problemi di mobilità, potendo giocare i quindici di battuta sul binomio minimal servizio-dritto da primo della classe, sono meno evidenti sui prati, semplicemente perché la possibilità di accorciare i rally è più alta qui che altrove e la pesantezza strutturale nel mulinare i piedi alla ricerca della palla non è aggravata, appunto, dallo stancante perdurare dello scambio.

Se a tutto ciò sommiamo una garra non comune e una capacità di restare con la testa nel match anche nei momenti più complessi, forse ci siamo dati la risposta che andavamo cercando. Matteo è quel che si dice ancorare il proprio gioco a una o due certezze; la qualità globale al ribasso fa il resto.
Detto ciò, Berrettini, a valle di un periodaccio orribile fatto di mille infortuni e dalla fiducia sotto alle scarpe, sembra essere tornato quello capace ogni volta di fornire la sua migliore versione possibile. La vittoria al primo turno in questi Championships contro l’amico Sonego deve avergli fatto scattare qualcosa perché il body language è passato in un amen da negativo a positivo ed è tornato a vincere le partite da vincere, quelle in cui è favorito. Piantata la bandierina sugli ottavi, la seconda settimana di uno Slam è di per sé un buon risultato se non fai Djokovic di cognome, gli dèi del tennis hanno concesso a Berrettini due possibilità in un colpo solo. Quella di fare fuori un Top 10 dal tabellone principale di un Major e, insieme, di misurarsi contro un giocatore che a differenza sua di frecce ne ha un’infinità non misurabile: Alcaraz. Tennista epocale che, il giorno in cui risolverà qualche lacuna fisica che lo accompagna tipo nuvoletta carica d’acqua da vacanza fantozziana, smetterà di perdere partite a tempo indeterminato. Se in qualunque altro contesto Matteo avrebbe dovuto ritenere accettabile l’idea di poter forse strappare un set allo spagnolo, c’è da dire che a Wimbledon il pensiero che possa sfruttare un pizzico di inesperienza erbivora del suo giovane avversario per inventarsi un match alla pari, anche solo nella sensazione di trovarsi nel posto giusto, non è così peregrina. Insomma, incontrare Alcaraz al di là della rete è come vedere Tyson che dagli spogliatoi punta dritto verso il ring, ma per Matteo le condizioni al contorno sono le più auspicabili. Lo favoriscono e, al contempo, insinuano qualche minuscolo dubbio nelle certezze epocali di Carlitos che, tanto per dirne una, contro Jarry, mica Edberg, ha faticato e non poco per venirne a capo.
Da segnalare il carro azzurro di nuovo pieno dopo settimane di precipitose discese.

I tifosi prestati al tennis sono fatti così, pensano di adattare ad una disciplina diabolica alcuni principi mutuati da sport meno complessi. Matteo non era un fenomeno quando stava a due set dal vincere Wimbledon e non era un brocco quando non portava a casa un match nemmeno giocando da solo. L’equilibrio del tennista, sempre se di cognome non fai Djokovic, è archetipo di instabilità, basta un niente per perturbarlo e palle che ieri spazzolavano le righe cominciano a uscire di un palmo senza un motivo apparente. La disdetta è che per tornare a mettere le palle in campo possa volerci un sacco di tempo, anche se la meccanica dei colpi è sempre la stessa dei giorni belli e non ti sai dare un perché al prezzo di diventare matto. Il tunnel nero in cui era precipitato Berrettini e dal quale sembra essere finalmente uscito.

Ora siamo di fronte ad un dilemma. Umanamente, per campanilismo e per avere un’altra bella storia da raccontare, sarebbe magnifico che Matteo battesse il più bravo di tutti sul campo, per distacco, più prestigioso. Per amore della disciplina, invece, ci piacerebbe potere tornare a dire che per un tennista saper fare con facilità più cose degli altri – avere più talento, in altre parole – sia sinonimo di vittoria, evenienza niente affatto scontata. Per convincersene è sufficiente ricordare che Federer ha perso in carriera qualche centinaio di incontri pur esibendo una qualità non replicabile. Casino, né?

In bocca al lupo, Matteo. Abbiamo altre preferenze tennistiche ma il tuo martello ci è mancato.

di Teo Parini

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