La fortuna non esiste, disse Seneca, per il quale la fortuna, appunto, non è che l’intreccio tra talento e opportunità. In compenso, detto terra a terra, la sfiga ha una vista da falco e pure parecchio selettiva. Punta sempre gli stessi. Attenzione, Jannik Sinner non c’entra nulla e, purtroppo, considerato il livello medio degli attuali fruitori del tennis in Italia ci tocca pure doverlo premettere. Giocatore fenomenale, l’azzurro, ma i suoi calcistici tifosi lo sono decisamente di meno.
Detto ciò, la partita che ieri lo ha visto protagonista è stata paradigmatica ma per il suo sfortunato avversario, Grigor Dimitrov che, avanti per due set a zero e, ciò che più conta, in pieno controllo tecnico e tattico della contesa, s’è strappato un pettorale sparando un servizio. Il dolore, Grigor che si accascia sul prato, le lacrime. Game over. Crediamo sia un record: il bulgaro cede il passo all’avversario per infortunio per il quarto torneo dello Slam di fila e non serve aggiungere molto altro.
Paradigmatico, quindi, un incontro che esemplifica alla perfezione uno dei più severi “vorrei ma non posso” della storia del tennis recente. Tutto il Dimitrov concentrato in una sera, la gloria a un passo che finisce in polvere. Giocatore meraviglioso, Grigor, che da ragazzino veniva chiamato addirittura Baby Federer per una somiglianza marcatissima con il più talentuoso di tutti. Etichetta assai scomoda per via di aspettative, manco a dirlo, difficilissime da attendere. Aggiungi ad una mano baciata dagli dèi, un viso da Hollywood e una certa competenza in tema di belle donne, e il personaggio da copertina, a cui si pensa che nulla sia impossibile nella vita, è servito. In quanto a tennis, l’aspetto che più ci interessa, Grigor ha realmente poco da imparare da chiunque, perché il suo, appunto, da qualche lustro è sinonimo di una bellezza tangibile. Mozzafiato. Vincere, però, è tutta un’altra cosa nello sport del diavolo che sembra fatto apposta per esagerare la dicotomia bravo-vincente. Un bazooka un filo troppo leggero per i tempi correnti e qualche fantasma annidato nelle mente hanno stabilito che per il bersaglio grosso non ci sarebbe stato troppo spazio. Grisha, come lo si chiamava ai tempi della love story con la divina Maria Sharapova – ed e piuttosto evidente il gioco del mix dei nomi – s’è rotto ogni volta sul più bello. Che fosse un crack muscolare, come ieri, o della psiche poco conta. Una maledetta costante, puntuale come le tasse. E pensare che, ironia della sorte, Madre Natura oltre al talento gli ha pure dato un fisico dall’elasticità di una molla. Eppure nella sua saccoccia continua a mancare un centesimo per fare l’euro intero, ancora oggi che le primavere sulle spalle sono tante e l’esperienza altrettanta. Ma pare essere tutto scritto.
Comunque, tornando al tennis giocato, che sui prati la sua inesausta competenza tecnica potesse fare la differenza anche contro il numero uno al mondo, era cosa nota almeno da una decade. Da quando, nel lontano 2014, gettò alle ortiche una semifinale londinese quasi vinta contro Novak Djokovic, quello vero mica questo attuale, che ne avrebbe potuto cambiare la carriera. Migliore in campo allora, migliore in campo ieri, dove, ma è segreto di Pulcinella per chi non si lascia prendere da fuorvianti campanilismi, ha dimostrato che benché membro della generazione dei Novanta – quella che si dipinge erroneamente come dei perdenti dimenticandosi del pedigree degli avversari – se si tratta di giocare a tennis non c’è Sinner che tenga. Faretra capientissima di frecce, la sua, tanto che a pensare a Dimitrov come a uno dei migliori interpreti dell’Era Open a non aver mai vinto uno Slam – vengono in mente solo Mecir, Nalbandian, Rios, Kyrgios e pochi altri – difficilmente si commette errore.
In ogni caso, un best ranking da numero tre al mondo nel 2017 non è proprio da buttare via, in aggiunta ad un Masters 1000 strappato proprio a Nick Kyrgios, sempre a proposito di fenomeni che non vincono mai, e altri otto titoli del circuito ATP. Conta il giusto come pensiero, ma il suo nome nell’albo d’oro di Wimbledon sarebbe stato, nell’ordine, atto di giustizia tennistica e motivo di lustro anche per il torneo più prestigioso al mondo. Finché c’è talento c’è speranza, dicono, ma sono anni ormai che il tempo delle illusioni in casa Dimitrov è finito. A non finire, però, è la necessità epidermica di chi non si rassegna all’abbruttimento della disciplina di godere delle prestazioni dei pochi come lui sopravvissuti all’involuzione tecnica di un circus mediamente meno virtuoso (perché le eccezioni ci sono) di un tempo. Checché ne dicano gli addetti ai lavori che, li si può anche capire, hanno un prodotto spesso scadente da vendere.
Chiosa finale dedicata a Sinner che ieri pare abbia sofferto anche di una noia al gomito, oltre che della bravura cristallina di un avversario che sull’erba (si può dire?) lo surclassa in opzioni. Un discreto colpo di fortuna, quello di essere uscito indenne da una serata durissima, ma la storia insegna che per vincere un torneo lungo due settimane serve pure quella. Roland Garros insegna. Insomma, Jannik il jolly in questo Wimbledon se l’è giocato. Chissà se, da qui ad un ritiro che ci si augura essere il più lontano possibile, una volta se lo troverà per le mani anche Grigor. Pensando a lui, probabilmente, Seneca sentirebbe l’esigenza di aggiornare la sua teoria.