Seppur con poca propensione nel non reiterare l’errore, perché restiamo gente ontologicamente suprematista, dello sterminio dei nativi nordamericani qualcosa abbiamo finalmente interiorizzato, nonostante il mito del Generale Custer non accenni a diluirsi. Decisamente di meno, ed è una colpa, sappiamo, invece, di Tehuelche e Mapuche, popoli indigeni della Patagonia che hanno ricevuto lo stesso trattamento da parte dell’uomo bianco. Un viaggio nelle loro terre d’origine, allora, può essere l’occasione buona per fare un po’ di giustizia, oltre che la consueta fonte di arricchimento culturale in luoghi meravigliosi.
La Patagonia, intanto, è una regione dell’America Latina condivisa da Argentina e Cile che include anche la Terra dei Fuochi e, oggi, consta di meno di tre milioni di abitanti benché l’estensione sia di quasi un milione di chilometri quadrati, circa tre volte l’Italia. Insomma, un deserto. Il nome lo si deve a Magellano che la scoprì nel 1520. Il navigatore portoghese celebre per la prima circumnavigazione del globo, imbattutosi in un popolo di giganti, pare li chiamò ‘patagoni’ (tradotto, i piedoni) per la presunta grandezza delle orme lasciate dai loro piedi. Etimologia tutt’oggi non del tutto scevra da dubbi. Patagón, infatti, è anche la creatura selvaggia vergata dalla penna di Francisco Vazquez nel 1512 in uno scritto tanto caro proprio a Magellano che, pertanto, potrebbe averne tratto ispirazione. Accezione selvaggia, per uomini con i piedi fasciati di pelle animale che si cibano di sola carne cruda. Ciò che è acclarato, però, è che i nativi fossero tutt’altro che gracili. E non poteva essere altrimenti, considerate le condizioni ambientali di un luogo inospitale perché perennemente sferzato da venti gelidi ed insistenti, così avaro di vegetazione ma ricco di ghiacci anch’essi perenni e distese di steppa in fotocopia senza soluzione di continuità.
Dalla scoperta, qualche secolo di quiete fino alla ‘Conquista del Desierto’. Il nome funesto che il governo argentino, da poco indipendente dalla dominazione spagnola, diede alle operazioni militari di razzia delle terre abitate dagli indigeni. Sotto la guida di Julio Argentino Roca, pertanto, nel 1885 l’Argentina piegò la resistenza delle popolazioni native della Patagonia che, da quella campagna predatoria, trovarono l’estinzione. Ennesimo sterminio sottaciuto. A riguardo, c’è purtroppo una poco edificante curiosità tutta italiana. Roca, a conquista ultimata, spartì i territori tra i responsabili della feroce campagna e le imprese inglesi che contribuirono al finanziamento della stessa. Nasceva così la famigerata ‘Compania de Tierras Sud Argentino’, dedita all’allevamento del bestiame su terre strappate ai legittimi proprietari ed alla gestione delle ricchezze. Nel 1991, la compagnia passò di proprietà alla famiglia Benetton, quella United Colors, delle tariffe autostradali e del ponte Morandi, che oggi sfrutta un terzo dell’estensione territoriale della Patagonia, noncurante delle rivendicazioni dei pochi Mapuche rimasti. La lunga mano delle privatizzazioni sulla pelle della gente, un’abitudine senza confini né latitudini.
Lungo i sentieri montagnosi patagonici, la costante, oltre al vento e al silenzio rotto solo dagli animali in libertà, è la presenza di arbusti alti fino ad un metro con bacche dal colore blu ricoperte da spine e foglie sempreverdi. È il calafate, sta alla Patagonia come il lampone sta alle Alpi, ed è depositario di una leggenda che, per chi ci è stato, assurge a buon auspicio. Si dice, infatti, che chi mangia una bacca prima o poi farà ritorno. Ancor più romantica è la storia, una delle tante, tramandata dai Tehuelche. Racconta di una donna ormai troppo anziana per affrontare l’ennesimo spostamento di luogo, atteggiamento tipico di una popolazione nomade come la loro in cerca delle migliori condizioni di vita, abbandonata al suo destino dalle ciniche leggi di sopravvivenza della tribù. Che, ormai giunta in punto di morte, si trasforma in un cespuglio di calafate potendo così resistere al gelo. Tra i suoi capelli, ora rami, gli uccelli trovano riparo d’inverno e nutrimento d’estate. Ma Calafate è anche il nome di una piccola città situata sulla riva meridionale del Lago Argentino, il più esteso della nazione, che prende il nome proprio dalla celebre bacca. Oggi, non è poi così evocativa della tradizione autoctona, perché trasformata in un polo turistico d’élite, ma la sua collocazione resta strategica sulla strada di ciò che ti aspetti di trovare a venti ore di volo da qui. Una terra ancestrale.
A proposito. Patagonia è la somma di due ecosistemi apparentemente dissimili. Semplificando: Ande ad ovest, bassopiani ad est. Ghiacci e deserti che, tuttavia, a pensarci bene sono quasi la stessa cosa. Innanzitutto, lungo l’inesausta costa atlantica sorge la penisola di Valdes, provincia del Chubut. Terreno arido, impenetrabile, regolarità polverosa a perdita d’occhio. Terre accomodanti ma solo per puma, guanachi, armadilli, leoni ed elefanti marini. Con orche in mare aperto e pinguini dentro e fuori dall’acqua, forse gli esseri viventi più simpatici del pianeta Terra. Qui è ancora tutto loro. Mare e steppa, all’infinito, ovunque ci si volti. Un luogo diverso da ogni altro che l’ha preceduto nella memoria del viaggiatore, identità patagonica incastonata al di fuori dalle principali rotte turistiche. Perché non c’è nulla. Anzi, qui ci si viene proprio per la ricerca terapeutica del nulla. E se a Trelew c’è pure un aeroporto, è altrettanto vero che anche anche tra piste, torri e velivoli, la vita scorre in punta di piedi. Lo scalo apre per far partire quell’unico volo, poi chiude in fretta e furia. Ci si muove con circospezione, quindi, dimenticando l’orologio e i suoi assilli, e non solo perché le strade ancora non conoscono la puzza d’asfalto. La precedenza va ai guanachi in marcia, la distanza premia la pace dei pinguini, il silenzio allieta il volo delle sterne. L’uomo, almeno per una volta, si muove entro spazi che lo fanno sembrare invisibile. Una soddisfazione, al pari della vista da Punta Delgada, pennellate sullo sfondo che esplorano le tonalità del blu. Forse il modo migliore per rendere l’idea di infinito. Ossimoricamente, qua, proprio dove il mondo finisce.
Ovest, dall’altra parte, fa scopa con ghiaccio. Il parco nazionale Los Glaciares, al contrario, è decisamente un polo di richiamo per gli aficionados della montagna di ogni latitudine. Cerro Chaltén e Torres del Paine sono nomi cari a chi fa dell’orografia impervia una inviolabile ragione di vita. A proposito di queste ultime mastodontiche torri di granito, sono tre, alte quasi tremila metri ed erose da gelo e vento, la ‘nord’ fu scalata per la prima volta da un italiano, Guido Monzino, e non è raro sentirla chiamare, appunto, Torre Monzino. Anche la ‘sud’ ha un forte legame con l’Italia. In particolare con il prete salesiano nonché esploratore esperto di Patagonia Alberto De Agostini, biellese, a cui è stata intitolata. Il Governo cileno, inoltre, gli ha dedicato anche un parco nella Terra del Fuoco e un fiordo. Detto di Calafate città e di un’aura troppo occidentale per essere vera, lì vicino, ad essere alimentato dal Parco de Hielo Patagónico Sur – sconfinato ghiacciaio continentale nonché terza calotta glaciale dopo Antartide e Groenlandia – è il Perito Moreno, duecentocinquanta chilometri quadrati del sistema andino il cui nome lo si associa a Francisco Moreno. Pioniere, che a suo tempo difese i confini argentini dalla disputa con i vicini cileni. Perito, nel senso di esperto della materia. Perito Moreno, in senso meno letterale, significa eternità dinamica, un paradosso di ghiaccio. Perché ogni anno il ghiacciaio perde tanta massa quanta ne acquisisce, dunque è stabile, ma si muove. Non essendo ancorato alla roccia sottostante, grazie ad un cuscino d’acqua al piede gli è consentito un moto traslazionale. Corre. Un paio di metri al giorno, l’ingegneria di madre natura. Tre ore di cammino fino al cuore del ghiacciaio, con il Cerro dos Picos sullo sfondo, sono un’esperienza difficilmente replicabile altrove che ben spiega perché quella dei limiti territoriali sia diatriba tra i due stati confinanti ancora irrisolta a distanza di secoli. Del resto, chi non vorrebbe fregiarsi di un luogo simile?. In gergo turistico lo si chiama ‘Big Ice’. Pace dei sensi, in quello del viaggiatore che si trova immerso in un mare allo stato solido, tra i boati dei seracchi che si staccano e sprofondano e i venti che, sibilando, scolpiscono i profili.
Il sud, infine, la Terra del Fuoco. Ushuaia è la fine del mondo: più giù di così non si può. La città più australe del pianeta, allocata su un’isola staccata dalla massa continentale dallo stretto scoperto dal solito Magellano in transito da un oceano e l’altro. Sopra Ushuaia sta la catena montuosa Martial, in mezzo il canale di Beagle, sotto il niente. Ciò che la rende unica, molto più che le trasformazioni in atto in chiave moderna. Ushuaia, non a caso, è la somma di due parole: ‘ushi’, cioè ‘al fondo’, e di ‘waia’, quindi ‘baia’. Baia alla fine del mondo nella lingua degli Yamanas, abitanti di queste terre già seimila anni fa. Meta dei cercatori d’oro, poi adibita a prigione in una sorta di confino, Ushuaia è rimasta sconosciuta ai più fino al 1930 quando i primi aerei civili cominciarono a farci rotta. Trasformata prima in una base navale, è diventata a partire dagli anni Settanta il punto di svolta per migliaia di abitanti di Buenos Aires in cerca di condizioni di vita più economiche lontano dalla capitale. Ironia della sorte, oggi Ushuaia è destinazione proibita per la stragrande maggioranza degli argentini proprio per il motivo opposto. Un peccato, la porta di accesso all’Antartide dovrebbe essere patrimonio di tutti come ogni regalo della natura. Ma tant’è.
“La Patagonia – scrive Sepúlveda – è un puzzle di luoghi incantati che non sembrano appartenere a questo mondo”. “Quando finalmente vi arrivai, ebbi la sensazione – scrive Theroux – di essere approdato al nulla, a un non-luogo. Ma la cosa più sorprendente era che mi trovavo ancora nel mondo, pur avendo viaggiato per mesi verso sud. Il paesaggio aveva un aspetto desolato, eppure dovevo ammettere che i suoi tratti erano leggibili e che io esistevo in esso. Questa era una scoperta: il suo aspetto. Pensai: Un non-luogo è un luogo. Due pensieri piuttosto celebri che riassumono con efficacia il lascito di un viaggio in Patagonia. In definitiva, un mondo nel mondo che ha almeno due meriti straordinari. Quello di ridimensionare l’onnipotenza dell’uomo quale padrone del tutto e, insieme, di ricordare che prima ci si convincerà di essere ospiti del pianeta e prima avremo trovato il modo migliore per abitarlo.