Ventuno San Valentino senza Marco Pantani. Palingenesi di una grande passione

Teo Parini rilegge le gesta del Pirata

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Sono passati ventun anni ma non sembra ieri, perché, uno per uno, li sentiamo gravare tutti su spalle che non sono più quelle forti di allora. Poco, sempre da allora, è sopravvissuto, se non il dispiacere acuto di un epilogo che nessuno si sarebbe meritato di vivere. Certe cose, infatti, non si cancellano, restano appiccicate come colla sulla pelle. La morte di Marco, la peggiore possibile, solo come un cane. Nel giorno di San Valentino e, ironia della sorte, nella camera dell’hotel che di nome fa Le Rose. Forse l’hanno ammazzato o, forse, s’è ammazzato con le sue mani. Ma che differenza fa?

No, non era un santo, del resto chi lo è? Al punto da poter giudicare un’esistenza, la sua, a metà tra il tribolato e lo sfortunato. Marco era un ragazzo normale, insignito da Madre Natura di una forma abbacinante di talento, ma normale. Che fu, probabilmente, il suo miglior pregio: la normalità dei vent’anni pur essendo speciale. Sensibilità che fa scopa con fragilità. Marco era fatto così, sentiva addosso il bene e il male in maniera amplificata, viscerale, tipico di chi, appunto, dà del tu agli affetti e ai dolori, vivendoli entrambi con il piede pigiato sull’acceleratore. Un casino sopravvivere nella società distopica ed endemicamente ingiusta che, in maniera orwelliana oltre che beffarda, traspone gli opposti. Bene e male, giusto per e sbagliato, bianco e nero.

Così, Marco, per pura sopravvivenza in salita filava il più forte possibile. Per abbreviare l’agonia, come diceva lui stesso, con il ciclismo quale impeccabile paradigma di vita. Democratico, pure, perché il ciclismo accomuna tutti nella sofferenza che la stessa per il primo e per l’ultimo. Solo che uno va più forte dell’altro. Ma, anche qui, che importa? Importa, invece, che i ciclisti trovano sempre il modo di essere uomini poco convenzionali, ai quali interessa decisamente più lo spirito con il quale si affronta la strada che il risultato. In quest’ottica, quindi, Marco ha incarnato l’essenza di uno sport che ha sublimato con il suo sguardo perennemente malinconico e quadricipiti impermeabili alle leggi del moto in un periodo storico di transizione.

Mentre gli avversari imparavano a padroneggiare computer di bordo e parametri clinici in real time, traghettando la disciplina che fu di Coppi e Bartali verso la scienza esatta, Marco spostava a ritroso le lancette del tempo, pedalando di cuore e improvvisazione. Quella pionieristica degli albori. Quel ciclismo in estinzione portò l’immenso e compianto cantore Gianni Mura a soprannominato “Pantadattilo”, creatura mitologica destinata anch’essa a non avere un seguito. Apparentemente invincibile dentro la corazza ma più soggetto di altri alla tirannia del tempo. Se avesse una qualche utilità ripassare le sue vittorie, ma non ce l’ha, ora saremmo qui a ricordare diverse cose.

Per esempio, che Marco è stato atleta capace di mettere in fila Giro e Tour nella stessa stagione, che ha sgretolato Indurain sul Mortirolo, Ullrich sul Galibier, Tonkov sulla Marmolada e Armstrong a Courchevel. Insomma, che non ha risparmiato nessuno dei giganti che lo hanno sfidato pancia a terra. Ma è un contorno, meraviglioso ma pur sempre contorno. Invece, ciò che è decisamente più importante è il pensiero. Perché Marco, innanzitutto, fu un’idea. Il getto della bandana quale rituale preparatorio alla deflagrazione della battaglia con il nastro d’asfalto che punta verso il cielo, le mani abbassate fino ad afferrare le corna del manubrio prima di uno scatto che gli osservatori più romantici definirono “perpetuo”, la sagoma che ondeggia – “en danseuse”, per dirla come i francesi – e l’inconfondibile sagoma che diventa un puntino colorato sempre più piccolo fino a sparire all’orizzonte, sono, pertanto, la sintesi del palmares che conta.

Istantanee, queste ultime, che sovrastano le pagine degli almanacchi buoni solo ad elencare vittorie, il “quanto”, senza rendere giustizia alle qualità umane, il “come”. L’amore in ciò che si fa, la schiettezza con la quale la si fa. Perché, siamo sempre lì, chi si innamora di una bicicletta non è mai per l’esaltazione di un risultato ma perché riconosce nel ciclismo una vita dentro la vita e prende coscienza che un altro modo di interpretare entrambe le cose è sempre possibile. Ventun anni.

Quel 14 febbraio fu realmente un giorno maledetto. Il giorno che si è portato via Marco ed un pezzettino di noi, indispensabili portavoce delle nostre anime vulnerabili. Allora, Ciao Marco, vecchio Pirata, ovunque tu sia. Sole, vento, pioggia, polvere e neve. Te lo si chiede per favore, non scendere mai dalla tua bicicletta. Perché se smetti tu smettiamo anche noi.

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