Sulla collina la neve disseta il brullo dei campi e degli ampi giardini delle case sparse. Nel tiepido imbrunire del febbraio che apre il cielo ad un azzurro candido e laggiù, nel fosco della valle, svetta metallico il campanile, com’è ormai costume domenicale parcheggio il mezzo dirimpetto un falansterio, opera gigantesca al raffronto con le attuali abitazioni, di un tempo immemore. Solo un esiguo quartiere è riattato a posteria con annessa abitazione. Si entra nell’afrore di carni affumicate e verdure cotte, vino nero e tabacco freddo. Al tavolo mi accolgono con un cenno. Uomini dall’eloquio parco e denso quanto il silenzio che accompagna il loro dire. Siedo e sollevo la carta per il mazzo. Tocca al mio socio. Il volto sagomato a scure sbarbato della domenica. Le nocche ottantenni tatuate da sessant’anni di forgia, incudine e martello. Il mignolo bruciato alla prima falange.
04
Due giorni di infortunio. Andava così. Mentre dà le carte un fascio di luce trapassa l’angolo nostro. Sono arrivati. Li guardo. Gli uomini si levano lasciando le carte contate sulla tovaglia logora. Dirimpetto l’incrocio, dove una rotonda ha mangiato parte del sagrato, la posteria occupa una cappella monacale dalla venuta di Bonaparte, un’auto segnala la ferma con le quattro frecce. Ne scende un uomo filiforme che le ombre già lunghe travolgono. Sono vent’anni. Mi volto verso la voce che spegne il fiammifero con uno sbuffo di fumo. Alle spalle di noi quattro corona la titolare. È sempre così con i morti, pare ieri. L’uomo depone il vaso di ciclamini di bianco cangiante sulla mensola della cappellina ricavata a nicchia nella cinta della casa antistante. Il Marco e la Sofia sono andati via all’istante. Sedici anni. Andavano forte. I ragazzi vanno sempre forte. L’uomo accende un cero dentro una lampada schermata. Un guizzo di luce nel buio. Magari viene qui. No. Non va più da nessuna parte. Aveva solo quella figlia lì. Dell’altro rimane un fratello che è come in Germania a lavorare e la sua gente è morta tutta. Non sapevo che è in Germania che gli anni scorsi venivano insieme. Lavorava in un laboratorio di medicinali, avrà avuto sentore di una mal parata. È un ingegnere. Stanno chiudendo. Ormai. Son passato di lì settimana scorsa con tutti gli striscioni appesi alle cancellate. L’han preso in Germania. Lenzuola sprecate. È un chimico. Il vecchio padre orfano deve essere risalito perché l’auto riparte a singhiozzo. Poi s’assesta e va. Piano piano. Sediamo. La padrona rimane al tavolo mentre apriamo le carte. Solito? Fa un litro che stasera è meglio. Lei annuisce col suo volto severo e pallido quanto il riverbero del cero sui ciclamini e sulla pallida neve.
Emanuele Torreggiani