Tour de France: il mito del Galibier, Pogacar e Pantani che non morirà mai

Il nostro Teo Parini ricostruisce l'epopea del campione romagnolo

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Ieri, Tadej Pogacar ha scritto un’altra pagina di grande ciclismo, spianando il mostro del Galibier in salita e, soprattutto, volando in picchiata fino al traguardo, raggiunto in beata solitudine come tutte (o quasi) le volte in cui decide sia il caso di fare sul serio. E con Jonas Vingegaard a mezzo servizio, per la terribile caduta ai Baschi nella tarda primavera che gli ha accartocciato un polmone, lo sloveno assesta il colpo che potrebbe già voler dire doppietta Giro-Tour, ventisei anni dopo la duplice impresa di Marco Pantani, anno di gloria 1998. Che dire, solo applausi per il fenomenale sloveno.

Ricorsi storici, quelli belli. Perché anche quella volta tra la fatica e la gloria ci fu in mezzo il Galibier, quasi duemila e settecento metri di altitudine incastonati nel dipartimento dell’Alta Savoia in uno scenario meraviglioso a prescindere. Una salita che evoca storie antiche. La prima rudimentale strada carrozzabile risale già al 1891, in Francia la chiamavano ‘Strada di grande comunicazione numero 14′ ma alla vetta mancava ancora un tratto. Lo scavò l’esercito, ma solo un secolo più tardi. Quasi in cima, ancora oggi troneggia il monumento a Henri Desgrange – per chi non lo sapesse, l’ideatore del Tour de France – che con la prima Grande guerra ancora da venire disse che i ciclisti, pur valorosi, dinnanzi al Galibier non fossero altro che “brodaglia” e, pertanto, obbligati a levarsi il cappello ad ogni passaggio. È risaputo, non toccare ai francesi ciò che i francesi reputano orgoglio di patria.

Per i nostri colori, nel 1937 fu Gino Bartali a transitare per primo sul gigante delle Alpi Cozie, mentre tre lustri più tardi fu imitato da Fausto Coppi. Senza nulla togliere ai due miti imperituri del ciclismo azzurro, e a tutti coloro che da semplici appassionati una volta nella vita hanno scelto di dedicare cuore e quadricipiti a questa salita, è proprio al 1998 che a sentire parlare di Galibier ci si immagina di tornare, con la forma di memoria più tridimensionale che c’è. Primo, perché Marco Pantani da ormai un ventennio se n’è andato altrove. Secondo, perché ci sono momenti nella storia dello sport che inglobano ciò che rende la vita degna di essere vissuta e assurgono a spaccati a metà tra epica e pedagogia. Anno ’98, dunque, 27 luglio. Estate piena ma, si sa, la montagna fa sempre un po’ quel diavolo che le pare in quanto a meteorologia. Infatti, quel pomeriggio il tempo è da tragedia: diluvia, tira un vento che rende l’equilibrio un esercizio difficoltoso, fa un freddo boia. Marco Pantani è nato in Romagna, adora il mare e in salita va come un treno ma solo perché, lo ripeteva spesso, l’agonia dev’essere abbreviata scalciando il più forte possibile sulle pedivelle. Vien da sé che quelle condizioni climatiche le detestasse epidermicamente.

Solo qualche mese prima, sulle strade del Giro d’Italia aveva fatto vedere che con l’orografia montana di torno era impensabile per gli avversari vederlo da vicino, tanto che, in un altro pomeriggio passato istantaneamente dall’asfalto alla leggenda, Marco salendo verso le Dolomiti in compagnia di Pavel Tonkov si rese protagonista del faccia a faccia che che oggi è assunto ad unità di misura dei duelli. Ma il Tour non è il Giro. Perché infarcito di chilometri a cronometro, esercizio contro il tempo che costituisce la cryptonite del Pirata, gli arrivi in salita sono soltanto due in tre settimane di corsa e, soprattutto, c’è Jan Ullrich, il Kaiser. Uno che ha saputo riscrivere le leggi della fisica in tema di potenza e che senza i famigerati bagordi culinari (e non solo) durante i freddi inverni della fu Germania dell’Est, oggi ricorderemmo come uno dei più forti corridori di ogni tempo. E poi, fare doppietta tanto somiglia all’impresa che nel tennis significherebbe assicurarsi il Grande Slam. Morale, accade una volta ogni morte di Papa e di cognome sarebbe meglio fare Indurain. Sarebbe.

Dopo la corsa rosa, Marco non è che si fosse allenato così bene in previsione di una campagna di Francia non certa. Tutt’altro. Poi Luciano Pezzi morì e al via scelse di presentarsi comunque, perché il suo mentore avrebbe voluto lo facesse. Così, le prime tappe sono un mezzo calvario al termine delle quali il tedesco dai quadricipiti grandi come sequoie lo precede e non di poco. Minuti. Giorno dopo giorno, però, l’occhio di Pantani assume il taglio delle occasioni migliori, perché ai fenomeni non piace prendere sberle senza reagire e Marco, se pungolato nell’orgoglio, diventa il peggiore avversario possibile come solo i campioni danno essere. Il 27 luglio, l’arrivo è fissato a Les Deux Alpes e già al mattino l’aria metaforica che si respira in gruppo rischia di essere più tagliente di quella vera che sferza il viso dei corridori. Quando Pantani aveva in mente qualcosa, non si sa come ma era madre natura a preannunciarlo con uno dei suoi trucchi.

In corsa, Ullrich vestito di giallo mette davanti i suoi uomini a fare da guardia, con lui il luogotenente e vecchia volpe Bjarne Riis con funzione di regista. Tutto sembra apparecchiato a puntino per il controllo della situazione. Invece, Luc Leblanc, uno scalatore di lusso, inizia ad agitarsi in testa al gruppo e le sue proverbiali progressioni sgretolano il plotone dei battistrada con il risultato di privare Ullrich del sostegno dei suoi gregari. A cinque chilometri dal monumento di Desgrange, il Kaiser è solo e Marco decide che il tempo dell’all-in, vittoria o morte, è sopraggiunto. Uno dei Pantani-Moments. Abbassa le mani sul manubrio, dà un ultimo respiro a pieni polmoni e si produce in uno di quelli scatti – perpetui, nella definizione del compianto Gianni Mura – che stanno al ciclismo come il dribbling di Maradona sta al soccer. In un amen riprende i fuggitivi, se li scrolla di ruota e sul Galibier, nascosto da un meteo da tragedia o dall’epica ciclista per chi lo preferisce, scollina in compagnia di sé stesso. Dietro, Ullrich è alla deriva, con le gambe vuote e il morale a pezzi di chi, senza averlo mai messo in preventivo, si scopre impotente.

Gli ultimi quaranta chilometri sono una pagina di ciclismo che è, insieme, in bianco e nero e colori. Bianco e nero, perché capace di evocare le indimenticabili gesta dei pionieri. Di chi, già un secolo prima, il Galibier lo scalava con bici pesanti come cancelli, maglie di lana sulla pelle nuda e con il copertone di ricambio a tracolla. A colori, invece, perché futuristica, capace di proiettare la disciplina in una dimensione moderna e interpretata secondo i canoni dell’arrembaggio. Il ciclismo d’attualità che oggi sublima, guarda il caso, uno come Pogacar. Trasfigurato da freddo e fatica, e con quella sua aria perennemente malinconica, Pantani giunge al traguardo abbozzando un’esultanza al solito contenuta con quasi dieci minuti di vantaggio sul re definitivamente nudo. Tour ribaltato, un capolavoro che fa da preludio alla passerella gialla sui Campi Elisi, con Parigi prossima a celebrare la grandezza imperitura del Pantadattilo. Sempre scomodando Gianni Mura, che ebbe modo di definirlo in tal modo proprio perché uomo a rischio estinzione, come i dinosauri. Cosa che purtroppo successe davvero non più tardi di una decina di mesi dopo, ma è questa un’altra storia.

Il Galibier, pertanto, ancora una volta fu giudice supremo, per l’occasione nell’incoronare la doppietta di Marco Pantani. Lo scalatore più forte di ogni eventuale pianeta, oltre che di epoca, dal cuore grande e la sensibilità dilagante, il cui scatto sui pedali si elevò in quei giorni a paradigma di vita per chi avesse l’ambizione di fare della caparbietà una granitica regola di esistenza. Un italiano, a distanza di troppe decadi, tornava sul gradino più alto della manifestazione che più di ogni altra emana ciclismo, spedendo ai posteri una cartolina proprio dalla cima che fa degli uomini ‘brodaglia’ ma non di quelli speciali. Come il Pirata. Marco ce l’hanno strappato troppo presto ma nelle giornate come quella di ieri, rese imperdibili da successori altrettanto valorosi come può essere appunto Pogacar, la sua sagoma inconfondibile sembra non essere mai andata via. Da lì, dove ci si aspetta sempre di ritrovarla: in salita. Christian Prudhomme, il parigino Direttore del Tour de France nel periodo che va dal 2007 al 2018, era solito ripetere un concetto: è il Tour a fare grandi i campioni e non viceversa. Campanilismo d’oltralpe, magari stucchevole ma con un fondo di verità.

Ci sono campioni il cui ricordo è davvero legato esclusivamente alla corsa che descrive planimetricamente un ricciolo e che, non per niente, gli spocchiosi cugini chiamano Grande Boucle. Tuttavia, ce ne sono altri che brillerebbero di luce propria, sempre e comunque. In Francia e pure nello spazio. Ciò, con buona pace del blasone del Tour, dei vini della Borgogna, della lavanda provenzale e della grandeur della patria che incarnò il sogno rivoluzionario. Marco Pantani, per fare l’esempio che amiamo di più, che il Col du Galibier quel 27 di luglio lo trasformò nel giardino di casa sua. E pure nostra.

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