Novi Sad con il suo affaccio sul Danubio impreziosiva, almeno finché gli è stato concesso, la Jugoslavia che fu. Oggi, invece, è la seconda città più grande della Serbia e, se il fiume blu continua imperterrito a scorrere, è tutto intorno ad essere molto diverso da prima. Lì, esattamente cinquant’anni fa, nasceva quella che, sebbene nessuno fornirà mai la controprova, ha tutti i sacramenti per essere considerata la più forte giocatrice del tennis moderno, quello caratterizzato dalla dismissione delle racchette ricavate da tronchi. Per coloro i quali già all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso il tennis era ragione di vita, il collegamento a Monica Seles è evenienza pressoché immediata, perché, e non è affatto un’iperbole, nella storia del gioco che fu pallacorda è obbligatorio fissare uno spartiacque epocale, prima e dopo di lei. Prima era una cosa, dopo è diventata un’altra; fino a quando è durata, quindi troppo poco. L’avvento di Monica ad un’età ancora lontana da quella maggiore sconvolge un contesto ricchissimo. Si parla di talento, esondante come quello che passa per le mani di donne come Navratilova, Evert, Graf, Sabatini e senz’altro ne stiamo dimenticando qualcuna di altrettanto valore. Con tutto il rispetto per chi c’è ora, una sostanziale differenza. Giusto ricordarlo perché, sempre con rispetto parlando, una cosa è mettere in riga pesi massimi di quella risma e un’altra è fare di conto con Swiatek o Sabalenka, come accade in questo momento storico che a definire arido gli si fa un complimento.
Monica Seles, scoperta da quella cacciatrice di campioni che è Jelena Gencic – già al fianco di Ivanisevic e poi di Djokovic quando ancora erano lontani dal diventare tali – e poi trasformata in macchina da guerra dal genio di Bollettieri in compartecipazione con il papà, non ha ancora sedici anni quando il mondo si accorge di una ragazzina che sul ground fa cose alle quali non si era certo abituati. Rino Tommasi la definiva con affetto “quadrumane” per la peculiarità di colpire a due mani tanto il dritto quanto il rovescio, un po’ come Fabrice Santoro, il mago dell’universo maschile, ma non è quella la principale scossa all’ordine precostituito delle cose. Monica, quando le avversarie più forti erano ancora in grado di occupare con competenza ogni angolo di campo, alza il baricentro del gioco, come si diceva allora, da fondocampo, mettendo i suoi piedi velocissimi a ridosso della riga bianca e comincia a colpire palline da quella posizione senza mai arretrare di un centimetro, a costo di giocare in perenne controbalzo. Ciò, grazie ad una coordinazione occhio-mano governata più da un microchip che da un cervello umano.
La strategia, nella sua complessità attuativa, è financo banale per chi mastica un minimo di dinamiche tennistiche: rubare il tempo all’avversaria, il bene più prezioso che c’è nel tennis come nella vita. Restituendo a mo’ di flipper palle violentissime e con la capacità euclidea di esplorare ogni possibile traiettoria, Monica propone alle rivali situazioni di gioco inusuali, complicate e spesso impossibili da gestire con il risultato che, salvo rarissime eccezioni, nessuna ha per le mani un antidoto efficace. Nasce quello che si è soliti chiamare flipper-tennis, il corri-e-tira, e come detto poc’anzi nulla sarebbe più stato lo stesso. Per vincere qualcosa di importante, infatti, si deve passare da lì. Seles è un Agassi in gonnella ma ancora più dominante. Tanto che prima del compimento dei vent’anni gli Slam in bacheca sono già otto e la sua più feroce rivale – la gigantesca Graf con le sue gambe, parafrasando Clerici, più belle dell’universo – sono più le volte che si ritrova a raccogliere i cocci. Anche il computer con le sue imparziali statistiche si deve arrendere allo strapotere della jugoslava, con il riconoscimento dello status di numero uno al mondo che sembra essere condizione immutabile. Sembra.
Perché ad Amburgo, in quello che è probabilmente il giorno più nero nella storia del tennis, uno squilibrato che si definisce tifoso di Steffi non trova di meglio da fare che accoltellare Monica alle spalle durante un cambio di campo. La ferita non è di quelle fisicamente troppo gravi, anche se i dottori dissero al tempo che cinque centimetri più in là avrebbero compromesso la colonna vertebrale, ma è a livello psicologico che deflagra una bomba atomica. Ancora non lo si sa, ma in un certo senso è tutto finito. La lontananza dai campi è lunga ventiquattro mesi, un’eternità, ed è resa se possibile ancora peggiore dalla prematura scomparsa di Karolij, il padre, a causa di un brutto male. Quando Monica torna ad imbracciare la racchetta l’occhio da tigre che sconfiggeva le avversarie ancor prima di scendere in campo non c’è più. “Quel giorno ad Amburgo – disse in un’intervista ormai diversi anni più tardi – mi fu tolto tutto: la mia innocenza, il numero 1, il mio lavoro, ogni cosa. Solo mio padre, in quel momento, aveva la capacità di dirmi parole che mi potessero aiutare”. Così, morto Karolij, per Monica è notte fonda che significa bulimia e depressione. Insomma, un incubo. La vittoria nel suo ultimo e unico Major dopo il rientro, quella siglata in Australia nel 1996, più che la rinascita sportiva è il suo canto del cigno, capitolo finale di una storia spezzata e mai più ricomposta. Proverà a restare nel circus, del resto è pur sempre giovanissima anche se più per l’anagrafe che per il vissuto, ma lo sport del diavolo non fa sconti, pretende in pegno l’anima e quella di Monica si è incrinata in un maledetto pomeriggio ad Amburgo. Poche le manifestazioni di empatia da parte delle colleghe e dalle istituzioni del tennis ma una, in particolare, si rivela preziosa. Gabriela Sabatini – donna dal fascino abbacinante e altrettanta sensibilità, nonché regina incontrastata di Roma e del Foro Italico impreziosito a più riprese dalla sua arte – è amica vera e salvagente nel mare in burrasca. Una mosca bianca, Monica lo ricorda spesso con affetto.
Non ha posseduto la grazia stilistica della Novotna o la mano fatata della Navratilova, del resto chi può vantare analoga bellezza, e nemmeno il fisico da decatleta della Graf, tuttavia, nel suo essere innovativa e capace di riscrivere le regole di un gioco secolare ribaltando il tavolo verde con tutte le carte sopra, Monica Seles deve essere considerata come la più forte di tutte. E il triennio egemonico che va dal ’91 al ’93 come la parentesi di dominio tennistico più annichilente di sempre. Una donna e una tennista che, in un mondo meno inquinato dalla solita cattiveria endemica, avrebbe riscritto, uno per uno, tutti i record del tennis. Senza mai fare un passo indietro da quella benedetta riga bianca.