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Solo i morti hanno finito di vedere la guerra, di Emanuele Torreggiani

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Ieri il Tribunale Penale Internazionale ha condannato alla pena dell’ergastolo, per i fatti accaduti durante la guerra in Jugoslavia, il generale serbo Ratko Mladic. In ricordo di quel conflitto che ha cambiato la storia dell’Europa, pubblichiamo un ricordo di Emanuele Torreggiani

Liubuskij. Ho un ricordo preciso. Sono stato in auto con lui, con Ante, per 30 km. Era notte. Pioveva. Si sfrecciava in un territorio controllato da mussulmani sul filo dei 170. Toyota hilux benzina. Senza luci accese.

Il ragazzo che era con noi, un giovane militare, è saltato su una mina un mese dopo. Si chiamava Davor. Ho dormito a casa sua. Una isba di legno. Su un pancaccio. Rivedo la sua mamma. Con uno scialle nero, già in gramaglie, e gli occhi assisi in un pianto trattenuto. Era un bel ragazzo.
Questa roba qui che mi trascino dietro è la guerra. E non avevo ancora visto niente. Solo i morti hanno finito di vedere la guerra, disse Platone.

La piana della Neretva è stupenda. Una pianura traversata dal fiume e tutta a coltivazione di mandarini iniziata nel 400 dopo Cristo da san Cirillo. Il cirillico viene da lì. La passammo. Ero seduto con un fucile tra le gambe. Una tokarev alla cintura e due bombe a mano in tasca. Davor in piedi fuori dal tettuccio con in spalla un lancia razzi terra terra caricati al fosforo. Raggiunta una zona sicura lasciò partire un siluro a 1200 yarde dove aveva individuato, nella notte, un bagliore. Mentre proseguivamo il lampo dell’esplosione sembrò anticipare la nostra corsa e la notte rilusse di un candore intenso. Virginale. Ante fumava a raffica. Sulla litoranea mi invitò a guidare. Lui si stese a dormire. Disse che si sentiva protetto. Fu un onore, per me. E tutto questo si perderà come una lacrima dentro la pioggia.

Alle 3 del mattino mi fermo a Ston. Presso un ristorante sempre aperto. Strapieno di ufficiali dei caschi blu. Francesi. Inglesi. Danesi. Champagne e troie. Entriamo armati. I due con me sono in mimetica. Io in borghese. Mi chiedono i documenti. Gli rispondo che sono un cacciatore.
Mangiammo datteri di mare, ostriche e ricci. Bevemmo e fumammo. L’alba ci vide entrare a Ragusa. Mi alloggiarono presso il monastero dei francescani. Loro andarono in caserme. Un chierico poco più che adolescente mi assegnò una celletta linda come un’urna. E mi mostrò i bagni comuni. Mi spogliai. Puzzavo di un sudore che sapeva di terra fradicia e mi lavai nell’acqua diaccia. Corpo e denti. Rietrai in celletta nudo con l’involto degli indumenti sordidi. Tremai, ma non era per nulla il freddo.  Sentii amore per quello che ero, che sono. Che sarò. Ringrazio Dio per questa esperienza. E Dio è Cristo.

Emanuele Torreggiani

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