Sinner nella storia, le Finals sono sue: avversari impotenti, aaa qualità cercasi

Teo Parini 'rilegge' le Finals di Torino appena concluse

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Accecati dai successi senza precedenti alle nostre latitudini di Jannik Sinner, sono in molti a non considerare un aspetto generale che riguarda il tennis decisamente importante. La qualità è ai minimi storici e non lo si afferma per fare i nostalgici ad ogni costo. Tolto Sinner, che non ha ovviamente colpa, con Alcaraz bollito ormai da luglio e Medvedev ancora scioccato dalla nefasta finale Slam regalata a Nadal quasi tre anni fa, il resto è, detto con rispetto parlando, davvero poca cosa. Basterebbe guardare le semifinali di queste ATP Finals per rendersene conto. Ci sono arrivati Ruud, tecnicamente uno dei meno dotati a riuscirci a memoria d’uomo, Zverev, uno che non vince un match che conta nemmeno se dovesse ritirarsi l’avversario e Fritz, già malmenato da Sinner nell’ultima finale di New York. Insomma, roba da rendere quasi più interessante il dj set del cambio di campo che non l’incontro stesso. Chi non lo dice mente sapendo di mentire, oppure ha un interesse nel vendere il prodotto.

Sinner, ben inteso, è giocatore straordinario e straordinario è ciò che sta facendo. Il tennis, però, agonizza, come era forse lecito aspettarsi a valle dell’eclissi, per motivi prettamente anagrafici più che per subentrate alternative, del triumvirato pigliatutto che ha portato la disciplina ad esplorare traiettorie mai viste prima. Insomma, la sostituzione di Federer, Nadal e Djokovic e delle loro mutue sfide è in questo momento utopia e chissà per quanto altro tempo lo sarà ancora. E se l’azzurro il suo dovere lo fa sempre e comunque, la carriera sinusoidale di Alcaraz è forse la principale causa del problema. Dotato di un talento epocale che nulla ha da invidiare a chi lo ha preceduto, Carlitos non ha la stessa fame dell’altoatesino e, forse, nemmeno la stessa struttura psicofisica sulla tenuta della stagione. È ormai una consuetudine, infatti, vederlo super sui prati di Wimbledon, dove scherza serenamente con gli avversari senza nemmeno dover alzare i giri del motore, e poi ritrovarlo quale demotivata controfigura di sé stesso fino a dicembre. No Alcaraz, no party.

E niente sfide con l’italiano che possano riconciliare con il tennis in un periodo che, appunto, non brilla per qualità globale. Anzi. Problema simile per Medvedev. Il russo non è depositario del talento di Alcaraz, lapalissiano, ma è giocatore formidabile qualora la psiche non ne intacchi i meccanismi. Meccanismi messi a durissima prova da un paio di sciagurate sconfitte nelle due finali Slam in Australia (2022 e 2024) praticamente in ghiaccio, leggi già vinte, e poi finite appannaggio dei suoi avversari, più per demeriti propri che per altrui virtù. Morale, addio e forse per sempre al Daniil capace di demolire Djokovic a New York. Altro guaio per il tennis che non trova alternative alla calma piatta imperante.

Tornando alle Finals, il torneo ha ribadito che in questo momento Jannik fa tutto un altro sport. E il suo tennis potrà anche non esaltare ma il ritmo che imprime allo scambio risulta incompatibile per le ridotte velocità di crociera dei suoi principali avversari. Emblematica, in tal senso, la finale odierna. Fritz si è dotato di un gioco solido, edificato su servizio e dritto robusti come da scuola americana. Quanto basta, cioè poco, per raggiungere l’ultimo atto a Torino e, in precedenza, pure agli Us Open. In entrambe le circostanze, però, al cospetto di Sinner, pur disputando la sua miglior partita possibile, non è mai riuscito a dare l’impressione di poter vincere. Una vittima sacrificale. In altre parole, il finalista di un Major come di un Masters non ha realmente la possibilità di competere per il titolo. Una sciagura per il tennis. Che il tiranno per una volta sia italiano è ovviamente motivo di orgoglio, dopo mezzo secolo di vacche magre, ma questo non può compensare il surplus di noia di una semifinale alle Finals che abbia per protagonista Ruud o, in senso più generale, di un ranking con Zverev issato al numero due.

Due parole, per chiudere, sulla finale. La miglior sintesi è quella data dal sempre brillante Panatta in telecronaca: “Quando serve, il punto lo fa sempre Sinner”. Che traduce lo stato di controllo assoluto sul match esibito dall’azzurro a cui è stato sufficiente tenere alta la soglia di attenzione per ritrovarsi con la coppa in mano. Qualche scaramuccia interlocutoria a far da preludio al break chirurgico ammazza-parziale in entrambi i set e in un amen i titoli di coda. Bravissimo, Jannik, due volte campione Slam in stagione e ora pure Maestro. Ma se Carlitos non si dà una svegliata qua si rischia una noia mortale.

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