Schillaci, epitaffio di un calcio che non c’è più

Gli occhi spiritati riletti da Teo Parini

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Era figlio di un calcio che non esiste più, quello che sapeva essere motivo di riscatto sociale per gli ultimi, che si sbucciava le ginocchia senza farne una storia su Instagram. Pane, salame e fantasia. Sport nazionalpopolare, nel senso letterale della locuzione, sogno di milioni di bambini che hanno fatto di un marciapiede il campo da gioco, prima che i petrodollari ne facessero scempio, trasformando una passione viscerale in un business che è oggi quanto di più scollegato ci sia dalla base della piramide.

Il calcio della domenica pomeriggio, delle radioline appoggiate alle orecchie e della corsa alla tivù per i gol di ‘Novantesimo minuto’ con i suoi cantori. La schedina e un tredici da indovinare, i numeri di maglia caratterizzanti il ruolo e i tre soli stranieri in rosa, a ricordare che che l’identità non è quel mostro con la quale la si dipinge oggi. Salvatore Schillaci detto Totò, eroe di quell’epoca che appare così lontana, ha da poco lasciato questo mondo, vittima di un male incurabile che alla lunga non gli ha dato scampo. Aveva cinquantanove anni.

Nato a Palermo e cresciuto tra le molte difficoltà di un quartiere problematico come il Cep, la sua era una famiglia modesta. Papà muratore, tre fratelli e una sorella, Totò, prima di diventare calciatore professionista e affermato, ha sbarcato il lunario nei modi più umili. Garzone, ambulante, gommista, finché il Messina Calcio si è accorto di lui. La svolta ma senza mai scordare le sue origini. Ha giocato nella Juventus e poi nell’Inter ma avrebbe rinunciato a quegli stipendi da privilegiato pur di vestire la maglia del Palermo, città che ha visceralmente amato. Qualche anno fa, quasi a voler colmare quella lacuna, ha rilevato in un quartiere difficile quanto il suo un centro sportivo, per provare a restituire ai meno fortunati almeno un po’ della stessa fortuna toccata a lui. Togliere i ragazzi dalla strada, il suo nobile chiodo fisso.

Per chi ha almeno una quarantina di primavere alle spalle, Totò sarà sempre l’uomo del Mondiale italiano, quello del 1990. Le notti magiche, inseguendo un gol. E di gol, Totò, in quella edizione maledetta ma nemmeno troppo ne mette a referto sei diventando il capocannoniere, benché giunto al mondiale con il compito di far rifiatare Carnevale, l’attaccante titolare nei piani del CT, Azeglio Vicini. Un torneo nel quale, ironia della sorte, una delle difese più forti della nostra storia recente ha finito per essere beffata di testa dal piccolo ma scaltro Caniggia. Incursione a ciel sereno che ha spedito in finale la sua Argentina, relegando l’Italia alla finalina di consolazione che ha visto gli azzurri prevalere sugli inglesi e, immancabilmente, Schillaci gonfiare la rete.

Con gli occhi spiritati, un marchio di fabbrica, del bambino cresciuto a pallone e asfalto che si conquista il palcoscenico più importante che ci sia. Antesignano, quando chiusa la parentesi milanese decide di trasferirsi in Giappone dove poter chiudere una carriera iniziata nelle serie minori, senza sconti o scorciatoie, dove si sgomita per il pane duro e non si guarda in faccia a nessuno. Con Schillaci, allora, se ne va un po’ di quel calcio così vicino alla gente. Il calcio che ci ha visto crescere, quello dei nostri anni migliori.

Fai buon viaggio, Totò. Amico di un’estate italiana che non dimenticheremo mai.

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