Rugby, appartenenza e Patria (o muerte…)

Molto più, che un semplice sport...

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Cos’hanno più di noi le nove squadre che ci sopravanzano nel ranking mondiale, oltre alla ovvia superiore competenza rugbistica? Davanti, a dettare legge dalla notte dei tempi, ci sono compagini nazionali accomunate da un aspetto che considerare secondario sarebbe da miopi. Sono manifestazioni tangibili di popoli intrisi, bontà loro, di amor patrio.

Patriottismo, dunque, che per motivi francamente incomprensibili alle nostre latitudini assume un’accezione negativa ma che altrove, senza scomodare più del dovuto politica e società, significa appartenenza, orgoglio e identità. Una medaglia al petto, in altre parole.
Che non si schiacci una palla in meta perché ancorati alla propria terra o che, la stessa palla, non finisca in mezzo ai pali grazie ad una bandiera, è cosa scontata. Ma lo è altrettanto il fatto che in sport di squadra, per di più di immane sacrificio fisico ai limiti del martirio, un denominatore comune come può essere quello dell’appartenenza sia un collante fondamentale per fare, sul campo, dell’io un noi. Un calcio nel sedere all’individualismo che detta le nostre azioni.

Quella degli All Blacks, per esempio, che non sempre vincono ma il fascino che emanano è immutabile, il profumo della rivalsa, aroma di una storia comune che viene da lontano. La storia dei Maori, che i bianchi eredi dei colonizzatori tentano ancora oggi di schiacciare ricevendo in cambio la Haka, emblema di fierezza e attaccamento alle origini; danza che gli araldi del politicamente corretto di casa nostra vorrebbero financo abolire perché, a loro dire, violenta. Invece, trasuda una forma di amore ancestrale che fa di quindici corpi una cosa sola.

Quella dei cugini, si fa per dire, francesi, che avranno tanti difetti ma se gli tocchi Parigi finisce sempre con la ghigliottina. Lo Stade de France gremito intona senza soluzione di continuità l’iconico ‘Allez les Blues’ dando spinta e morale ai giocatori in campo mentre da noi, nella migliore delle ipotesi, è uno speaker ad abbozzare frasi inascoltate nel silenzio tombale. Vorrà pur dire qualcosa. Un popolo, quello francese, che quando si sente tradito da chi lo governa, e succede spesso, non ha paura di sporcarsi le mani e mettere a ferro e fuoco la nazione, rivendicando i propri diritti calpestati. L’antitesi dello sciopero italico, quello del venerdì, buono per dare profondità al weekend.

Gli irlandesi. Anche qui ci sarebbe poco da aggiungere su un popolo che, in quanto a fierezza, è cromosomicamente docente universitario. Di inni, in campo, ne portano addirittura due. E parlano di Irlanda, quella dei padri, quella costruita con sangue e sudore, quella che verrà. La benzina di un motore che non perde mai un colpo? La lotta di liberazione nazionale dei popoli celtici, tutti, dallo sciovinismo imperiale britannico. “Viene il giorno, viene l’ora, viene il potere e la gloria, siamo venuti rispondendo alla chiamata del nostro Paese dalle quattro fiere province d’Irlanda. Irlanda, Irlanda, insieme, in piedi, spalla contro spalla, risponderemo alla chiamata dell’Irlanda”. È un estratto meraviglioso e significativo di un testo, l’Ireland’s Call, che, sebbene sopravvivano ancora oggi le divisioni che allontanano il nord dal sud, rammenta al mondo che, al bisogno, di Irlanda ce n’è una e una soltanto. Patriottismo alla potenza enne. Che un omone da cento chili di muscoli in procinto di fare a sportellate con i suoi rivali scoppi in lacrime omaggiando la nazione, poi, in Irlanda è commovente routine.

Il Sudafrica guarda tutti dall’alto se si tratta di rugby. Hanno vinto quattro mondiali su dieci di cui l’ultimo. Il loro è un gioco sporco e rude, sparagnino ma feroce, e traduce perfettamente il percorso che li ha condotti fino a qui. Là, infatti, il rugby ce lo portarono gli invasori inglesi e ne fecero una questione tra bianchi, sport elitario e divisivo. Poi, però, gli Afrikaner sconfissero i colonizzatori, presero il rugby e lo diffusero ovunque, nei villaggi come nelle campagne più remote, facendone lo sport nazionale che, successivamente, un gigante del nostro tempo come Mandela fece anche di tutti. Dei boeri, quindi, uomini che lottano per conquistare l’ovale come i loro genitori fecero per garantire alle generazioni future libertà e patria. In campo, a vederli schiumare agone, sembra di rivivere quella storia. Di Patria, appunto.

Insomma, di esempi se ne potrebbero fare moltissimi. Il coraggio degli Highlander scozzesi e la loro voglia di indipendenza (dalla solita Corona). La rivincita delle isole del Pacifico, Tonga, Samoa e Fiji, che attraverso lo sport affermano caparbiamente la loro dignità post-coloniale. Tutti spaccati di mondo che fanno a cazzotti con l’individualismo e l’assenza di senso comune che, invece, intacca il nostro quotidiano, caratterizzato dalla congenita incapacità di migliorarci a livello collettivo perché accecati più dal “quanto” che dal “come” e ancora meno dal “perché”, con lo sport, che della vita è ineccepibile paradigma, a fare da cartina al tornasole.

Per tutto questo, anche la piccola Georgia, sabato scorso, pur perdendo ma di un soffio ci ha impartito una sonora lezione. L’Italia stava giocando a rugby mentre i nostri avversari, attraverso il rugby, difendevano orgogliosamente la loro identità.

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