Che il tennis non sia il baricentro dei suoi pensieri è concetto piuttosto chiaro ormai da un pezzo. Non ne ha mai fatto mistero, Sasha, arrivando talvolta a usare parole sgradevoli per il gioco.
“Una merda”, in una delle rarissime volte in cui ci ha trovato in disaccordo. Il suo, per l’allenamento, è l’entusiasmo di chi si reca in ufficio il lunedì mattina sfidando la bolgia della tangenziale, quindi pressoché azzerato. E le cose, quasi sempre, non vanno meglio nemmeno durante i tornei. È il suo lavoro, lo pagano bene per farlo, si tappa il naso e lo fa. “Sono io quello normale”, ha detto una volta con riferimento ai colleghi decisamente più meticolosi di lui, e la tentazione di dargli almeno un po’ di ragione non è poi così peregrina, considerata la brillantezza (si fa per dire) extra-tennistica di chi poi alza i trofei. Qualcosa che lui raramente fa.
I suoi detrattori obnubilati dal risultato a ogni costo, purtroppo sono la maggioranza bulgara dei fruitori del tennis che l’effetto Sinner ha pure incrementato, pensano che Bublik sia il classico sbruffone che non raggiungendo l’uva la denigra. Non hanno capito nulla. Il kazako d’adozione, pare che all’epoca la federazione russa gli offrisse di meno tanto da consigliare il cambio di casacca per business, detiene una quantità di talento tennistico che il solo Alcaraz oggi eguaglia e se in gioventù avesse allenato un po’ l’attitudine, da affiancare alla tecnica sopraffina gentilmente concessa da madre natura, siamo certi che il tennis avrebbe raccontato storie differenti. Ma è un problema tutto nostro, non certo suo che di immolarsi per la carriera non ne sente affatto l’esigenza.
Così, una partita di Bublik può essere, alternativamente, caviale o kebab. Anzi, la stessa partita può essere più sinusoidale delle montagne russe, con il risultato che ad esultare siano spesso onesti mestieranti della racchetta più avveduti di lui nella conta dei punti. Lo si è visto perdere, anzi non giocare proprio, partite che per qualità intrinseca avrebbe potuto vincere con la mano di scorta, così tante volte nei suoi primi ventisette anni di vita da finire per far percepire l’evenienza ricorrente alla stregua della normalità. Ha vinto ad Halle, casa Federer e vorrà pur dire qualcosa, l’unico torneo degno di nota della carriera fino a qua e la sensazione è che quella volta di due anni fa, facendo secchi Sinner e Zverev, si siano miracolosamente allineati i suoi pianeti. Un accadimento, dunque, irripetibile. A conferma di ciò, l’inizio del 2025 non è stato quello che si dice un successo. Tuttavia, è da qualche settimana che sembra animato da qualche buon proposito, al punto da scomodarsi per scendere nel pantano dei Challenger a mettere benzina nelle gambe in chiave Roland Garros. Così mentre Alcaraz e Sinner se le davano di santa ragione a Roma, lui incamerava il più modesto torneo di Torino, circondato da gente che non si capisce nemmeno faccia il suo stesso sport.
Tipo strano, lo si è visto più voglioso all’ombra della Mole per un appuntamento di seconda categoria che in mille più appetibili circostanze. Mood insolito replicato anche in Bois de Boulogne quando, dopo aver perso i primi due set senza combattere contro il top ten DeMinaur, è salito in cattedra garantendosi l’ottavo di finale prestigioso contro Draper. Giocatore vero e in enorme ascesa, il britannico. Uno di quelli che perde solo se l’avversario finisce per essergli nettamente superiore perché di suo pugno non regala mai un quindici. L’incontro era in programma oggi, sulla carta un lunedì come tanti che l’hanno preceduto a Parigi. Invece, non solo non è risultato paragonabile ad altri ma il match tra Bublik e Draper ha offerto un paio d’ore di abbacinante bellezza tennistica da parte di entrambi con Sasha, però, che ha esplorato traiettorie inconsuete che costringono a scomodare paragoni a dir poco ingombranti. Non è un’iperbole.
Perso il primo serrato set per colpa di un sanguinoso doppio fallo sulla prima palla break concessa al rivale, un marchio di fabbrica, il kazako nei successivi tre parziali ha giocato un tennis financo esagerato e pure scevro dai consueti passaggi a vuoto, compendiando, tutto insieme, l’arte del controbalzo e quella del tocco. Fossimo qui a raccontare di tuffi, ecco che parleremmo di difficoltà 3.6, la massima possibile. Bublik, disturbante per varietà proposta e solidità nell’esibire soluzioni vincenti, al cospetto di un giocatore forte e che uno Slam a differenza sua finirà per vincerlo, ha disputato la partita perfetta. Un po’ Agassi nel giocare con i piedi sulla riga di fondo senza mai arretrare di un passo, un po’ Rafter nelle soluzioni di volo d’altri tempi, un po’ Ivanisevic con il martello in mano al servizio, un po’ Nalbandian nell’esecuzione incessante del rovescio bimane. Insomma, eccellenza pura che riconcilia con il tennis.
Non è dato sapersi se e quando Sasha, con le sue policrome personalità, sarà in grado di replicare queste due ore irreali sul rosso, che per i meno giovani rimandano ai due set con i quali McEnroe annichilì Lendl proprio a Parigi nel 1984, esibendo – parola di Tommasi – il miglior tennis sul mattone tritato della storia. Forse mai, forse dopodomani. Forse Sinner lo farà a pezzetti. Poco importa. Il tennis, brutalizzato dal corri-e-tira di bollettieriana ideazione e da attrezzi fin troppo democratici, ha un disperato bisogno di quelli come Bublik. La cui seppur inaffidabile presenza nel circus sta a ricordare il passato luminoso della disciplina, quando il saper giocare bene a tennis era requisito imprescindibile per emergere, con l’educazione della mano a farla da padrona. Ancora, chi pensa a Bublik solo come a un giocoliere tutto palle corte, tweener, servizi da sotto e orpelli folcloristici, dovrebbe sedersi sui banchi di scuola. Sasha sarà pure un Globetrotter della disciplina nata dalla pallacorda che collateralmente cazzeggia e diverte, ma per fortuna degli avversari ha quasi sempre qualcosa di meglio a cui pensare. Perché quando si annoia succede esattamente quel che s’è visto oggi, un giorno da Alexander Bublik. In estrema sintesi, bellezza.