Le gomme chiodate pattinavano a scintille sul selciato mentre il retrotreno sbandava per riprendere nella scalata di marcia, roca identità della Giulia Alfa Romeo, dentro la notte di ghisa della Milano metà anni Ottanta. Il Duomo, lieve nel candore nerastro da neve sporca, lì. Erratico. Ancestrale. Silente. L’Alfa Romeo, in leggero controsterzo sul beolame remoto, che sgranava in rombo vivo, traversava le strette vie della città originaria, deserta a quell’ora.
Tra le commessure delle persiane serrate s’intravvedevano filari di luci. Lei, in attesa di quel timbro di motore scostò il portino ricavato nel portale di quercia lucente di ottone nella fascia al suolo. L’affusolo delle sue gambe fasciate di nero in tacchi alti. S’acquattò in auto nel sonoro tintinnio di due braccialetti pesanti d’oro avviluppata in un visone scuro che respirava Chanel e Camel. Nel buio dell’abitacolo e della notte i suoi denti candidi in labbra carminio. Fumava. Lui s’abbassò per abbassare la leva della sicura e respirò a fondo l’odore di lei che lo trattenne passandogli una boccata di fumo e guidandogli una mano dentro la pelliccia al serico contatto con la sottoveste nera. Lei lo baciò a lungo mentre i suoi occhi verdi andavano illuminandosi. Allontanandolo, con il pollice che sapeva di tabacco e profumo spalmò sulle labbra di lui il suo rossetto residuo. Lei sorrise e portò la mano di lui al sussulto del seno pesante. Partirono. L’interno dell’auto era caldo. I Dire Straits si adoperavano con Brother in arms mentre imboccavano viali in uscita verso sud incrociando pochi mezzi. Stando girata verso di lui lei sciolse la coulisse della pelliccia e gli chiese se avesse idea di dove stesse andando e lui scosse il capo. Lei annuì mentre dal sedile posteriore si sentì un tintinnio di vetri. In un cartone incassato dietro il sedile una bottiglia immersa in un secchio con cubetti di ghiaccio. Lasciarono la tangenziale e dopo uno svincolo presero una strada che tagliava una pianura di risaie in secca. Il lume di casolari sparsi e lo squarcio dei fari. Forse una volpe quando appena rallentò entrando in un paese che pareva disabitato. Scorse una posteria tabaccheria debolmente illuminata. Disse che si poteva bere un caffè e lei annuì mentre lui fermava l’auto. Aria gelida e nubi basse, cariche. Entrarono. Un campanellino d’avviso attaccato al battente. Il locale sapeva di aria vizza, la macchina del caffè era spenta, dal retro si intravvedeva il riflesso di un televisore in bianco e nero ed una voce distorta che gridava manca un’ora ed uno scroscio di applausi. Una donna per nulla anziana gravata agli occhi da una profonda fatica li osservava dalla porta di comunicazione. Lui chiamò per un pacchetto di Camel senza filtro e lei strappò due boeri in carta rossa. La donna disse che comprando due boeri si poteva partecipare alla lotteria che metteva in palio una bicicletta. Parlando guardava la ragazza in pelliccia e sottoveste di seta e tacchi a spillo e scosse il capo alla bicicletta; contando il resto diede una voce al retro dove s’era levato un lamento e arrovesciando il capo mostrò un profilo regolare fragile nella dolenza. Lei disse che era suo padre e non aggiunse altro. La ragazza prese lui sottobraccio, aveva la pelliccia aperta. Negli occhi della donna il rifesso di quel gesto. Disse che sarebbe nevicato sicuro. Che sarebbe stata la prima neve dell’anno. Li accompagnò alla porta. Disse che credeva di averla serrata. E si salutarono. Fuori il rumore del chiavistello. Lui l’intravvide mentre lei li osservava da dietro la vetrina.
Guardava la ragazza salire in auto. Poi spense l’insegna e fu notte piena. Ripresero per quella strada tra le campagne livellate. Lei scartò un boero e con i denti staccò il capezzolo di cioccolato fondente e bevve il liquore. Poi lo mise in bocca a sciogliersi. Gli si avvicinò, lui rallentò fino a fermarsi e lei gli passò la ciliegia sulla punta della lingua. Aveva i denti neri di cioccolato e si baciarono a lungo. Non passava nessuno fuorché il vento e le nubi. Rimise in marcia e indicò un folto di alberi laggiù dove ancora più in fondo s’intravveda il lume di un casolare. Lei, mentre lui si accedeva una sigaretta, si sfilò le mutandine nere. Lui aprì la mano e lei gliele pose. Nel buio della notte dentro l’abitacolo buio colse un luccichio. Annusò. La seta sapeva di profumo e di acqua marina. Spense le luci entrando nello sterrato sotto gli alberi. Un filare di pioppi e due grandi pini dalle chiome basse, parcheggiò lì, girando il muso dell’auto verso la strada e lasciò il motore acceso. Il casolare era a duecento metri. S’intravveda una luce a piano terra in verticale ad un camino che fumava a legna. Mentre il vento andava nell’auto il profumo dei corpi si fece odore profondo. L’auto era così surriscaldata che i vetri non appannavano. Lei aprì una portiera per cambiare l’aria e squassò il raschio gelido del vento che li fece avviluppare dentro la pelliccia. Lei gli si mise cavalcioni e gli sussurrò all’orecchio. Lui guardò l’orologio nel cruscotto e alzò le spalle. Entrambi erano giovani ed ogni stanchezza era impotente. Bevvero a notte fonda. Dal casolare nessuna luce. Bevvero direttamente dal collo arancione della bottiglia, bevvero l’uno nella bocca del altro ridendo delle bollicine che facevano soffocare. Forse sazi. Fumarono.
Quasi assopirono lievemente ebbri quando un picchiettio li riprese. Il vento fortissimo spazzava neve. Sul vetro si vedeva la perfezione geometrica di ogni singolo cristallo che trapuntava. Lei scese dentro la sola pelliccia, scalza e raccolse una manciata di cristalli. Erano così gelati che non si scioglievano sul suo palmo. Li leccarono. Affamati di quell’innocenza che solo la neve.
Emanuele Torreggiani