Lo si era detto, il rischio di un assolo paradossalmente noioso c’era tutto. Due i motivi: la grandezza epocale di Pogacar, la pericolosa tendenza del ciclismo contemporaneo a correre per salvare il salvabile, quindi il secondo posto. Si sperava di sbagliare nella previsione e, invece, il copione lo hanno tutti rispettato alla lettera. Pogacar a cento chilometri dal traguardo apre il gas, titoli di coda. A cento chilometri dal traguardo, tutti meno uno cominciano la corsa nella corsa, quella per l’argento. Che non significa affatto dire che Pogacar avrebbe potuto essere battuto ma, che per motivi che non sempre sono ascrivibili al solo ciclismo, si privilegi un piazzamento sicuro al rischio di saltare in aria provando a vincere.
Così, lo sloveno, prima in compagnia del non-compagno Sivakov – palese nel ragionare per scuderia (chi paga) e non per nazione (la Francia) – e poi da solo, gestisce chilometri ed energie consapevole di non poter essere raggiunto, mentre dietro i sopravvissuti si corrono contro senza preoccuparsi di cercare un accordo per dar vita ad un inseguimento efficace. Per la verità qualche eccezione c’è e non va cercata tra i presunti grandi protagonisti della vigilia. Sono, infatti, Skujins e Healy gli unici che orchestrano un contrattacco degno di questo nome, tanto che ad una trentina di chilometri dal traguardo riducono il gap sotto i quaranta secondi, approfittando – va detto – anche di un rifornimento preso con calma serafica da Pogacar. Bravi, perché i più blasonati Evenepoel e van der Poel si limitano alla guerra reciproca e il comunque ottimo Hirschi dimostra di aver mancato il treno buono considerata la gamba odierna degna dei giorni più belli.
Nel gruppo dei comuni mortali anche O’Connor, che azzecca l’allungo buono per acciuffare la piazza d’onore, il solito sparagnino Mas, a cui manca sempre un centesimo per fare l’euro, l’eterno Bardet, bravo a salvare la faccia ai transalpini orfani dello sfortunato Alaphilippe, caduto e rincasato anzitempo. Per il bronzo, lo spunto buono è quello di van der Poel che regola un evanescente Evenepoel. Impresa titanica, anche per gli almanacchi, quella di Pogacar. Tripletta Giro, Tour e Mondiale. Non succedeva dal lontano 1987, quando a riuscirci fu Roche, l’eroe di Irlanda.
Capitolo Italia: un disastro annunciato. Da salvare, se proprio si deve, il coraggio di Bagioli che per tutta una salita resta francobollato alla ruota di Pogacar prima di finire la benzina e la sua corsa. Ciccone, venticinquesimo all’arrivo, è l’ultimo azzurro a cedere dopo una corsa in linea con le sue possibilità. Inutile girarci intorno, il nostro livello è questo, non siamo competitivi. E pensare che non più di diciotto anni fa, l’anno d’oro di Ballan, al Mondiale di Varese gli azzurri facevano primo, secondo e quarto. Oggi, invece, non abbiamo un corridore spendibile e sarebbe il caso di fare una riflessione seria sul perché ciò sia potuto accadere.
La stagione che volge al termine ha ancora da offrire il Lombardia, classica delle foglie morte che è sempre garanzia di spettacolo. Ecco, a Pogacar si vuole davvero bene ma non è che almeno al via di Bergamo possa decidere di non esserci preferendo una giornata di relax in dolce compagnia? Nulla di personale, ma a noi, aficionados del ciclismo senza interessi di bottega e pure un po’ romantici, le corse già scritte hanno annoiato. In ogni caso, quello che ci sta facendo vedere lo sloveno è stratosferico, perché ogni volta è capace di riscrivere regole ciclistiche che fino a ieri parevano inviolabili. Che dire, giù il cappello.
Appuntamento a Como, allora, per i meritati saluti di fine anno.