L’ultimo uomo, scrivendo in stilema nicciano, è morto. Aveva assistito alla morte di Dio, s’intenda il comunismo, di cui egli era stato ‘maschera di carattere’ quando, negli anni della sua presidenza, si celebrava ‘l’ombra di Dio’.
La spinta comunista, soprattutto nella capacità della necessaria dialettica, era stata asfissiata nei decenni della stagnazione brezneviana, dove l’apparato aveva strozzato ogni critica, non più come al tempo di Stalin con fucilazioni e deportazioni, ma con la psichiatria applicata alla volontà di stato. I critici, comunisti, venivano mandati nei reparti psichiatrici. Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyin segna un tuffo in quell’oscuramento che ha portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica sul finire degli anni Ottanta.
Michele Gorbaciov, con il suo ministro degli Esteri, Edoardo Shevarnadze, uomo dal gesto anglosassone, hanno evidentemente tentato, il primo in patria ed il secondo nel mondo, di salvare una eredità che stava sprofondando dentro la dissoluzione che avrebbe sfracellato un enorme paese ed uno straordinario popolo contro la ‘gabbia d’acciaio’ del capitalismo. Com’è accaduto. Poteva fare diversamente? Lo sa solo lui ora disteso nel tremendo della cassa in attesa di essere sepolto nella tomba dove giace la sua signora Raissa che sempre lo sostenne semplicemente guardandolo con quel silenzioso sorriso affettuoso che si ritrova nelle pagine della grande letteratura russa. Certo non avrebbe potuto ripetere gli impeti sanguinari di Stalin, la cui figura richiama quella tragica del tiranno di Tebe. Gorbaciov arrivò al Cremlino quando era dimora di un Dio ormai postumo. L’apparato potentemente imborghesito dal desiderio per la ‘tecnica’; la carica rivoluzionaria già spettacolo da grottesca rievocazione; il popolo minuto dedito alla quotidiana sopravvivenza. Dall’altra parte della Cortina di Ferro si udiva il canto delle sirene. L’ammaina bandiera portò in breve l’Unione Sovietica al disfacimento strutturale, si consideri che nel decennio seguente l’attesa di vita si ridusse di sette anni. Si assistette così alla più grande rapina della storia attuale. Le risorse nazionali nelle mani di un pugno di famiglie. La rapacità capitalista promosse coloro che verranno indicati come oligarchi, in Occidente si chiamano con tenerezza filantropi o imprenditori, insomma al crematismo. Sino all’arrivo di Vladimiro Putin che ha messo un freno ferreo alla spoliazione sistematica di un popolo complesso come quello russo. Per campare, fisicamente procurarsi il cibo, si prestò a testimonial di Pizza Hut e Louis Vuitton, ed era l’ultimo uomo che ha sepolto il suo Dio. E qui si coglie l’infima miseria del capitalismo che non lesina un vitalizio ad un qualunque biscazziere parlamentare e umilia l’uomo che aveva visto la morte di Dio, che la riconobbe e l’annunciò al mondo. Suo compagno di spirito e di comprensione del tempo fu Giovanni Paolo II, il più grande teologo della storia del ‘900, che all’ammainare della Bandiera Rossa, in quel dicembre del 1991, disse che abbattuto il comunismo occorreva abbattere il capitalismo. Fu tanto deriso e tanto ridicolizzato. Lo spirito del tempo dentro la gabbia d’acciaio non ammette aperture. La guerra in atto lo dimostra.
Emanuele Torreggiani