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Dall'archivio:

L’ultimo giorno di…. un Uomo.

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Si alzò dal tavolo poggiando entrambe le mani aiutando a leva le gambe, rinunciò con un diniego del capo alle braccia che prontamente s’erano distese per bilanciarlo. Il cuore pompava così forte che lo stordiva.

Con l’indice sfiorò il Renè Lalique Sauterelles che andava fissando da un po’ mentre s’adoperava svogliatamente al men che frugale pasto. La sola vista del cibo lo saziava. La cuoca era entrata in sala con sguardo interrogativo vedendo il rifiuto di ogni piatto concordato in mattinata. La ringraziò sorridendo. La propria voce lui stesso faticava a riconoscere, monocorde d’una nota arida. Preferiva tacere. Scorreva con l’indice le venature del freddo vetro bluastro, cicatrici superficiali e profonde in trama e ordito, gli mostravano quello che sapeva del suo cuore e quello che non voleva sapere più. Fece un passo indietro, gli parve un miglio. Sbandò. L’uomo, la sua ombra protettrice da trentacinque anni era lì, lo sapeva. No. Non intendeva coricarsi per il riposo pomeridiano. Ogniqualvolta si sdraiava si vedeva dall’alto. Vedeva il suo corpo immobile, il volto trasudante il pallore marmoreo, imminente, certo, ma non ancora. Non oggi. Forse già domani. Ma non oggi. Disse di chiamare l’auto. Camminarono, al suo passo, dalla sala all’atrio. Pattugliava con lo sguardo argenti, dipinti, sculture. Ricordava benissimo dove li aveva acquistati e quando e quanto. Calcolò che fossero stati buoni investimenti. L’avrebbero sopravvissuto. Da secoli, più o meno, sopravvivevano a chiunque. Dal fondo della memoria gli apparve un’immagine che gli aveva mostrato mesi addietro un nipotino, era di un antico re che, deposto nella bara, mostrava le mani fuori dalla cassa. Le dita aperte. Il nipotino aveva chiesto il significato di quella cosa così orrida, doveva scrivere un pensierino. Già, era novembre. E lui, il nonno, gli aveva detto che quella posa, significava che non si può portare niente dentro la morte. Niente. E aveva aggiunto, ma non lo disse al nipotino, si arriva nudi e nudi si riparte. Non glielo disse perché commisurò che tanto un bambino quanto un uomo non hanno dimensione della morte fin quando essa non si annuncia. Beh, è molto semplice da comprendere, ogni giorno non torna indietro. Un libro, insomma, magnifico e terribile, volti pagina e non puoi riaprirla. Lui l’aveva capito subito, sin da piccolo. All’età del nipotino lo sapeva. Glielo aveva imposto la sua natura. Era nato così. La vita è adesso. Adesso, adesso, adesso. Ogni giorno l’aveva spremuto sino all’ultimo istante. Anche oggi, ch’era arrivato ad un passo dal confine, lo sapeva. Non sapeva cosa fosse la morte, sapeva com’era. Si lascia tutto. E sapeva d’essere ad un passo. L’auto era già pronta con la portiera aperta. Il pomeriggio limpido di sole, la brezza tiepida, una carezza le ombre degli alberi secolari. “La consolazione dell’ombra”, dove aveva letto questa frase? Ci sarà tutto anche dopo di me. Mentre saliva in auto, il suo uomo gli accomodava le gambe e il busto, ricolse quel verso, l’aveva recitato un attore al passo in casa sua. Una notte, in una sospensione dalla sarabanda, quell’uomo aveva inciso il silenzio recitando una poesia di un tedesco che camminando lungo un ponte della Senna si era buttato. Ecco, si chiamava Paul Celan, la testa gli funzionava ancora bene. L’attore gli aveva mostrato il libro. Era un volume elegante, rilegato, stampato su carta india. La sua casa editrice l’aveva pubblicato. Commisurò il costo dell’operazione industriale e già sapeva molto bene che non sarebbe rientrato nell’investimento. Ventotto milioni di italiani sono analfabeti funzionali. Ma andava fatto e ne fu felice, quel verso oggi, ad un passo dal confine, lo consolava. Quell’uomo aveva lasciato versi, li aveva seminati qui, ad impronta del suo passaggio. Germogliavano ogni giorno. Indicò all’autista indirizzi e percorso. Voleva vedere la Milano in quel pomeriggio di sole, in quell’aria tiepida, nel taglio delle ombre dei viali alberati, ai semafori le ragazze che traversavano tenendo per mano i loro innamorati. Anche domani e dopodomani, ebbe un sussulto, un moto di ribellione del cuore e del respiro espresso in roco suono, ed io non ci sarò più. La sua ombra si voltò, lui fece un cenno d’assenso. Andiamo avanti tutto bene grazie. In pieno centro non gli importava guardare i palazzi ben conosciuti, banche d’affari, uffici, sedi di multinazionali, cercava una gelateria, abbassò il finestrino, eccola, al plateatico i camerieri andavano e venivano, coppe di gelato, caffè, il fumo di una sigaretta, sorrisi, confidenze bisbigliate, complicità, una giovane mamma imboccava la sua bimba ancora nel marsupio, gli parve di udirne il grido di meraviglia e le minuscole mani che tentavano di afferrare il cucchiaino. La gran luce della vita, il sole, l’aria tiepida, la consolazione dell’ombra, tutta la vita che vedeva, che entrava e che andava via. Tagliavano la metropoli. Auto, tram, autobus, furgoni, moto, monopattini, biciclette, pedoni. S’affiancò un mezzo dei carabinieri, l’autista fece un cenno, tutto bene, quelli svoltarono. Lui si prendeva tutta quella vita dal palcoscenico, non poteva più recitare, salire sul palco. E sapeva che era l’ultima volta che la vedeva dalla platea. Arrivarono nel quartiere che aveva costruito. Era stata la prima grossa impresa della sua vita. Una città con migliaia di abitanti. Riscorse le pagine delle riviste che ne avevano scritto. Questo rimane, si disse. Gli alberi erano cresciuti, molti tra questi, già impiantati adulti, avevano scollinato il secolo. Ogni primavera danno fiori, disse, il nostro tempo non è eguale al loro. Eppure viviamo insieme. Chiese che l’auto si fermasse. Lì, in una piazzuola sotto la chioma di un magnifico pino atlantico. La sua ombra gli aprì lo sportello. Grazie, disse, non scendo. Stiamo qui un momento. Osservò le formiche che andavano e venivano. Respirò il profondo profumo di resina. Guardò le palazzine, le cento e cento finestre tutte abitate. Tutta quella vita sarebbe continuata. Disse che era pronto, che si poteva rientrare. La sua ombra lo informò che aveva ricevuto decine e decine di chiamate. Fece dei nomi. Lui disse che voleva stare ancora un poco solo. Ancora un poco, disse. Nell’auto che andava silenziosa il profumo della resina lo accompagnava. il suo cuore era lì, sulla mensola, pieno di cicatrici. Andava pacificandosi così come deve essere.

di Emanuele Torreggiani

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