In un suo epigramma, il poeta ellenico Antipatro di Tessalonica, narrò questa tragica storia d’amore, ma l’antico mito greco trovò maggiore fama grazie ad Ovidio, che ne parlò nelle Heroides, ovvero “Eroine”, una raccolta di epistole composte tra il 25 e il 16 a.C., praticamente delle lettere che lui si immaginò scritte da famose eroine ai loro mariti o amanti; e questa storia tra i due innamorati Ero e Leandro fece così presa sugli animi dei poeti che, secoli dopo, anche Bernardo Tasso, padre del più famoso Torquato, gli dedicò un poemetto, e di loro scrisse altresì il drammaturgo e poeta inglese Christopher Marlow. Ma vediamo di rinverdire la memoria di chi già la conosce e farla conoscere a chi invece non la conosce affatto.
La vicenda si svolge tra due rive dell’Ellesponto, quel braccio di mare che collega l’Egeo al Mar Nero attraverso il Mar di Marmara e che oggi ha preso il nome di stretto dei Dardanelli.
Ero viveva a Sestós, una località posta sulla costa europea dello stretto, che si trovava proprio dirimpetto ad Abydos, luogo dell’Asia Minore dove invece viveva Leandro. Vista la distanza equorea tra i due, viene spontaneo domandarsi come aveva potuto scoccare la scintilla tra loro. Il fato, che decide il destino degli uomini, aveva approfittato dell’importante festa dedicata ad Adone e ad Afrodite, che si teneva a Sestós, dove sorgeva un tempio dedicato alla più bella dea dell’Olimpo, proprio per farli incontrare; infatti, sacerdotessa della dea, era Ero, ma questo non impedì a Leandro di innamorarsi a prima vista di lei, e a lei, colpita dalla medesima freccia di quel birichino di Cupido, di ricambiare quel sentimento. Quella passione fu però ostacolata dai genitori del giovane perché Ero, essendo una sacerdotessa, come tale aveva fatto voto di castità; ma l’amore, si sa, non bada agli intralci e ai divieti, anzi, essi non fanno che rinfocolarne la fiamma; così, nottetempo, il giovane attraversava a nuoto lo stretto marino che li separava per stare tra le braccia dell’amata.
La distanza tra Sestós e Abydos, secondo Plinio, contava 1.350 metri. E come lo stretto di Messina è turbinoso, turbinoso è anche questa strettoia dell’Ellesponto; quindi, possiamo dedurre che il giovane fosse un abile ed audace nuotatore.
La fanciulla lo aspettava anelante tutte le notti, affacciata alla finestra della torre costiera in cui viveva assieme alla nutrice, indicandogli l’approdo tramite la fiamma di una torcia, affinché le correnti non lo deviassero dalla meta.
Eolo e Poseidone non potevano però essergli sempre amici, infatti, quando una notte particolarmente tempestosa Leandro si recò alla spiaggia, vedendo il mare in burrasca, si sedette su di una roccia sconsolato, pensando a un’epistola che lui aveva inviato all’amata:
Non ti avrò dunque mai se non quando lo vorrà il mare, nessun inverno dunque mi vedrà felice? E poiché niente è meno certo del vento e dell’acqua, la mia speranza deve essere sempre riposta nel vento e nell’acqua? Adesso è ancora estate, ma quando le Pleiadi, Boote e la capra Olenia, sconvolgeranno il mare? O non so fino a che punto ho coraggio, oppure anche senza cautela, Amore mi getterà in mezzo alle onde. E perché tu non creda che io prometta per un futuro lontano, ti darò presto un pegno della mia promessa: se il mare resterà gonfio ancora per poche notti, cercherò di andare per i flutti ostili; o avrò sano e salvo il premio della mia audacia, o la morte sarà la fine di questo amore affannoso.
Dopo aver ricordato quella promessa l’innamorato tentò di entrare in acqua per ben tre volte e per ben tre volte il mare lo ricacciò a riva; ma poiché la ragione non comanda mai sul cuore, egli decise di tentare la sorte. Durante la traversata il vento spense però la fiamma che gli indicava il cammino e il bel Leandro, che nuotava arditamente tra i flutti quasi fosse una creatura marina, perso nell’oscurità ed esausto, alla fine fu sommerso dai marosi. Ero, dopo averlo atteso invano, pensando che il maltempo lo avesse fatto desistere nonostante quanto l’amato le aveva scritto, triste, andò a coricarsi. Quella notte la trascorse girandosi e rigirandosi nel letto, ma Morfeo, quando l’Aurora dalle rosee dita cominciava ad illuminare il mondo, le fece sognare un delfino che ondeggiava a fatica tra i flutti smossi da un vento impetuoso; e giacché i sogni del mattino erano ritenuti veritieri, quando si svegliò l’angoscia l’attanagliò, e la prima cosa che fece fu quella di affacciarsi alla finestra e da là, ahilei, scorse il corpo esanime dell’amato, deposto pietosamente dalle Nereidi ai piedi della torre. In preda alla disperazione si portò le mani alle chiome, quelle chiome aulenti e tanto carezzate da Leandro, poi, in preda alla disperazione, si lanciò dall’alto della torre per unirsi a lui in un ultimo mortale abbraccio.
E per secoli, sino a noi posteri, quei due sfortunati amanti sono rimasti esempio di coraggio e di amore fedele, cosa che ai nostri tempi è raro trovare.
A cura di Luciana Benotto