L’Italrugby chiamò: stasera si sfidano gli All Blacks

Ore 21, Torino; occhi iniettati di sangue

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Nel rugby non è necessariamente la vittoria a fare la differenza. Quella volta, nell’inverno del 2009, dalla battaglia di muscoli e sudore uscimmo sconfitti nel punteggio, seppur di stretta misura, ma quello che successe negli scampoli finali è parte fondamentale della nostra storia. San Siro è gremito, pare una sfida calcistica da Champions League, e il colpo d’occhio mette forse più in soggezione dei nostri avversari, gli All Blacks.

La Haka, nella cornice della Scala del Calcio, è memorabile ma, appunto, incute meno timore del solito. Anche se, nel religioso silenzio che gli viene tributato diversamente tributato, l’urlo del condottiero e le manate tirate sui quadricipiti dei suoi compagni fanno un baccano sinistro, è il preludio alla lotta.

L’Italia è quella di Castrogiovanni, il Man of the Match, del gladiatore Troncon, dei fratelli Bergamasco che, insieme a ottantamila persone, strillano l’inno di Mameli e piangono. Ci sono, tra gli altri, i due Gonzalo, Zanni, Del Fava e Perugini che, con i compagni di reparto Castrogiovanni e Ghiraldini, fa della mischia italiana qualcosa di devastante. Per tutti, neozelandesi inclusi. A guidarci è Nick Mallet, sudafricano, e la sua voglia di far vedere al mondo che la sua terra è sempre sinonimo di rugby, anche da esportazione, è tangibile. Il pubblico non è tipicamente cresciuto a pane e rugby ma con il passare dei minuti acquista competenza e diventa parte integrante del Quindici azzurro che, con un calcio di Gower, mette la testa avanti nel punteggio. Chi si aspettava che la Marea Nera devastasse gli argini deve ricredersi in fretta, perché la difesa italiana è un muro invalicabile. Il mestiere dei tuttineri, però, fa muovere lo score fino alla meta di Flynn, sarà l’unica dell’incontro a testimoniare la straordinaria prestazione azzurra, che manda tutti negli spogliatoi per il break sul punteggio di 14-3. È chissà se Canale non si fosse fermato ad un palmo dalla marcatura che storia racconteremmo oggi.

La ripresa ripropone gli stessi valori in campo. Fino al minuto settantatre, lo spartiacque. L’Italia attacca verso la curva nord, quella solitamente casa del tifo interista, sul lato destro del campo e si conquista una mischia, la cifra stilistica di una squadra che nella lotta casa per casa diventa epica. Il pacchetto italiano ingaggia ed assesta una spazzolata ai pari ruolo neozelandesi che gli fa scricchiolare le ossa ma, per motivi purtroppo ovvi, l’arbitro australiano, anziché sanzionare gli All Blacks infliggendo loro l’umiliazione della meta tecnica, farà ripetere la mischia la bellezza di undici volte pur di non sancire la supremazia dei ragazzi di Mallet. Undici cazzo di volte. Dieci minuti di furia cieca si abbattono sui più forti di tutti che appaiono agli occhi del mondo incapaci di reagire. Un pugile all’angolo, suonato. L’Italia, in uno sport diverso da tutti gli altri come questo, è in paradiso. Furente e orgogliosa, insieme. San Siro se ne accorge e il fischio finale è accompagnato da un applauso che, forse, non si era mai sentito.

Il 14 novembre del 2009, pertanto, è la volta in cui facemmo paura ai maestri, una medaglia al petto che non smetterà mai di brillare. Oggi, quindici anni più tardi, a testare i nostri evidenti progressi compiuti negli ultimi 12 mesi saranno ancora loro, gli All Blacks, che nella gelida notte di Torino cercheranno di infliggerci la peggior sconfitta possibile e, insieme, vendicare la battuta d’arresto subita contro la Francia la settimana passata. Non bisogna farsi illusioni, sarà una sofferenza inesausta ma abbiamo le qualità per uscire a testa alta dal campo. Più di quanto abbiamo saputo fare, cioè poco, nel più recente testa a testa, quello degli ultimi mondiali finito con quasi cento punti sul groppone. Un tritacarne da non ripetere.

All’appuntamento con la gloria non arriviamo al top della condizione psicofisica, va detto. Le sfide contro Argentina e Georgia non hanno dato quei risultati che ci si potesse attendere e, come non bastasse, gli infirtuni a ripetizione ci costringono a rivedere ogni volta i piani di gioco. Non ci sarà Lamaro, il capitano, con una spalla ko e sostituito dal rubapalloni Zuliani ma, in compenso, ritroviamo Capuozzo, la scheggia impazzita capace di far saltare le difese più arcigne. Sulla strada che porta al Sei Nazioni, dove ci sarà da difendere la memoria di quello meraviglioso disputato un anno fa, alla partita di questa sera ciò che si chiede e di affermare, con una prestazione gagliarda e di cuore, i miglioramenti del nostro movimento.

Perché, appunto, vincere, sul Pianeta Rugby, non è mai l’unica cosa che conta ma guadagnarsi il rispetto sì, è fondamentale. Occhi iniettati di sangue e spirito di sacrificio, allora. Facciamo vedere agli All Blacks che in Italia non si viene solo per opere d’arte e buona tavola e che, soprattutto, a casa nostra non si regala niente a nessuno.

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