Neve di Capodanno
Rara temporum felicitas, ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet. [Tempi felici, anche se rari, quelli in cui è lecito pensare ciò che si vuole ed esprimere ciò che si pensa.] (da Le storie 1.1, di Publio Cornelio Tacito)
Il primo Gennaio del 1985 il cielo è compatto di un bianco lattiginoso, sono le otto e trenta del mattino, un grado sotto lo zero, non c’è un solo passante che si affardelli nel cappotto per la via. Poi, per ventisei giorni su trentuno, la temperatura non risale, arrivando ai “memorabili”, come si lesse, “meno nove di Milano Brera e meno venti di Milano Linate”. Già nel corso della notte una neve di brina leggera si è distesa addolcendo appena la gelida aria scossa dai vacui mortaretti di Capodanno, i cui bossoli flosci sedimentano sotto il metro e mezzo di neve che cadrà nei giorni che verranno sino all’aria sottile della primavera.
Al terzo piano, poco dopo la mezza, un uomo si distende nel tempo, nel grande silenzio acuito dall’ultimo scoppio di una stella di fuoco fatuo, che cade spegnendosi senza lasciare più traccia, dentro la notte lattiginosa e ferma.
Passati di lì
Noi non siamo responsabili di tutto il male del modo, ma siamo responsabili di fronte a tutto il male del mondo. (da I fratelli Karamazov di Fedor Michailovic Dostoevskij)
Per anni si è passati di lì. Ecco, improvvisamente si faceva una deviazione dal percorso abituale o necessario e si passava di lì. Si dava una fuggevole scorsa all’erba, ogni anno sempre più alta, alla boscaglia da sottobosco che prendeva possesso, alla ruggine delle cancellate grigie, alle tapparelle divelte, ai vetri infranti, a quella verniciata sul granito dolomitico dell’alta zoccolatura: Superior stabat lupus, longeque inferior agnus…, che stingeva all’acqua e al sole.
Si sa chi la scrisse. Comparve in luglio, giorni canicolari, quando la commissione di maturità, anno scolastico 1977/78, cambiò ad alcuni studenti, con un anticipo di ventiquattr’ore, le materie per l’esame orale. Un fatto inconsueto che aizzò polemiche inesauste per anni. Nottetempo, uno di allora entrò nell’ampio parco che circonda l’edificio, tracciando quella scritta che la mattina dell’esame odorava ancora di vernice fresca. Lo disse, quell’uno, anni e anni dopo. Un casuale incontro, caffè, percorsi divergenti, l’orecchio alle chiamate di partenza: “Era una scritta di protesta per la palese ingiustizia commessa”…
Si è passati di lì per anni. Poi si svoltava bruscamente, accelerando per rimettere la distanza tra quell’allora e quel permanete presente di rovina. Ma galleggiava, con una dolenza che lenta alleggeriva, l’immagine dell’atrio spoglio con la porta della palestra/aula magna e la chiocciola del telefono a gettoni, le tre rampe di scale da salire per arrivare alle sezioni del triennio: A, B, C. Al secondo piano c’era il biennio con un alfabeto lungo in mattanza allo scadere dell’anno scolastico. Al primo piano c’erano la presidenza, la sala professori, gli uffici, le segreterie. Tra le otto e venti e le otto e trenta il vano scala, la tromba, era percossa un cupo suono di jungla…
Dunque si è passati di lì per anni e montava furore per quello spettacolo di miseria. Miseria di un abbandono; miseria della povertà di quei disperati della terra che, si sapeva come tutti sapevano, trovavano accampamento notturno; miseria per il costante teppismo dei miserabili.
Verrebbe da scrivere, ma non ne vale più né pena né inchiostro, miseria per una classe politica indigena che non ha saputo né voluto identificare quel luogo come sede unica dei licei magentini e delle medie superiori tutte. Miseria, verrebbe da scrivere, ma non ne vale più né pena né inchiostro e pertanto non lo si scrive.
Si è passati di lì per anni, ma non per nostalgia o rimpianto. Non c’era, nell’atto del passaggio, il dolore del ritorno, l’impossibile sentimentale, a persone o luoghi o eventi collocati nel passato che si vorrebbe rivivere. Ma no…, si è appresa negli anni la consapevolezza dichiarata che domani dopotutto è un altro giorno. Eppure si è passati di lì per anni.
(1, Continua)