Le vere fattezze di Dante e il suo segreto

A cura di Luciana Benotto

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Quando pensiamo al nostro sommo poeta, il volto che vediamo è quello di un uomo col naso adunco e la mascella prognata, ma il suo naso non era esattamente così.

Se vi accadrà di prenotare un pranzo o una cena all’Enoteca Ristorante Innocenti Wines di Firenze, ubicata in via del Proconsolo, vi ricrederete. Il ristorante, che si trova in un edificio che un tempo fu il Palazzo dell’Arte dei Giudici e dei Notai, conserva affreschi storicamente preziosi, anche se in parte lacunosi perché, col trascorrere del tempo, la sala più importante della corporazione mutò la sua destinazione d’uso divenendo sede di una bottega di tessuti.

I dipinti, posti sul soffitto e lungo le pareti, hanno rivelato un segreto che ha a che fare col padre della nostra letteratura, che qui è ritratto col suo vero volto, dalla carnagione olivastra e nient’affatto brutto, come quello immaginato da pittori a lui posteri, tra cui Botticelli, che lo effigiò di profilo nel 1495 vestito di rosso e col serto d’alloro posto sopra il cappuccio a gote e più tardi, nel 1510 Raffaello ce lo mostrò in Vaticano con cipiglio serioso durante una disputa, precisamente nella Stanza della Segnatura. Nell’affresco del locale dell’attuale enoteca il ritratto di Dante venne eseguito pochi decenni dopo la sua dipartita quando il suo viso era ancora conosciuto, e non è difatti dissimile da quello postumo che invece gli fece l’amico Giotto nella cappella del Palazzo del Bargello.

Ma per cercare di capire meglio come fosse l’aspetto dell’Alighieri, affidiamoci anche alla descrizione che ne fece Boccaccio nel suo “Trattatello in laude di Dante”, che così scrive: “Fu dunque questo nostro poeta di struttura mediocre e divenuto anziano procedeva un po’ incurvato ma con un’andatura autorevole e serena, sempre vestito con semplicità dalla veste che si addiceva ai suoi anni. Il volto aveva lungo, il naso aquilino, gli occhi più grandi che piccoli, le mascelle grandi, ed il labbro inferiore sopravanzava quello superiore; i capelli erano scuri, così come la barba, crespi e spessi; il viso appariva sempre malinconico ed assorto nei suoi pensieri”.

Il fatto che il vate sia stato descritto con la barba fa pensare proprio all’affresco che sta sul soffitto dell’enoteca che mostra una tonda rappresentazione simbolica della città del Giglio nel Trecento, ai lati della quale appaiono sei figure, una delle quali è un insolito angelo barbuto, e noi sappiamo che gli angeli non hanno un sesso ben definito, non si dice forse -parlare del sesso degli angeli- quando si discorre di cose inutili? Studiosi di ieri e di oggi hanno sostenuto che quest’angelo dalle ali colorate altro non sia che l’allegoria dell’Arte dei giudici per il fatto che in mano regge un cartiglio con scritto: “Sono l’Arte del bene e della giustizia”, ma un altro critico d’arte suppose invece che esso raffigurerebbe in modo criptico la soppressione dell’ordine dei Templari, visto che un altro angelo barbuto si trova a Palazzo Vecchio in un affresco dove l’Orcagna riproduce proprio la distruzione di quell’ordine in cui i cavalieri di Cristo portavano la barba. Un ordine questo, del quale alcuni suoi membri pare facessero parte di una misteriosa confraternita chiamata “I Fedeli d’Amore” di cui faceva parte anche il giovane Alighieri.

Il collegamento con quest’ultimo è stato ipotizzato per il fatto che si riunivano a pregare 9 volte al giorno e si sa che per Dante questo numero era importante in quanto aveva conosciuto Beatrice a nove anni all’ora nona (le 15.00) e l’aveva rivista nove anni dopo a diciotto; inoltre i beati che il poeta descrive nella candida rosa del suo Paradiso sono vestiti di bianco, e di questo colore era il mantello templare; e per tornare al 9, esso, secondo le teorie numerologiche medievali, in quanto multiplo perfetto del numero 3, ovvero della Trinità, era simbolo di perfezione. Inoltre i Templari intrattenendo rapporti col mondo musulmano, avevano diffuso in Occidente testi considerati magici, e quindi, amando la segretezza, potevano benissimo aver fatto parte del gruppo della confraternita fiorentina.

Ma torniamo alle pareti dell’ex Palazzo dei Giudici e dei Notai, ovvero dell’attuale ristorante, dove oltre alle fattezze dell’Alighieri vi è pure l’immagine di Boccaccio che gli addetti ai lavori definiscono un tardo fedele, in quanto suo maestro fu Cino da Pistoia. Tra Boccaccio e Dante, nella parte sbiadita e lacunosa della parete c’erano altri personaggi, di certo seguaci di quel gruppo, come il notaio Cino da Pistoia e Lapo Gianni, entrambi amici di Dante; ed è notorio che taluni notai erano poeti che amavano scrivere sonetti stilnovisti, quel nuovo stile che vedeva la donna come un angelo che faceva da tramite tra Dio e l’uomo. Ma perché tanta segretezza se erano solo poeti? Perché molti loro sonetti o canzoni che parlano d’amore per le loro donne, erano in realtà messaggi che si scambiavano tra adepti usando allegorie, anagogie e allusioni morali comprensibili solo ai possessori delle chiavi di lettura, ovvero ai Fedeli d’Amore. La stessa opera giovanile di Dante: La Vita Nova è, a quanto pare, un testo in cui egli in realtà nasconde, dietro la storia del suo innamoramento per Beatrice, un messaggio esoterico. In pratica, questi fratelli di penna erano i sostenitori di una nuova dottrina ispirata dall’alto, dal Cielo, erano degli gnostici. Ma per chi volesse approfondire, consiglio la lettura di un piccolo ma illuminante testo scritto da Renzo Manetti e intitolato: “Dante e i Fedeli d’Amore”.

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Luciana Benotto

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