Ignudi e fermi dentro la collina, nel vago chiarore del cielo stellato, i morti. Accade, nel denso silenzio un fruscio, pare sia la terra sul suo asse al giro. E ammontano così i giorni sui giorni. Anni a falde.
E per l’ovunque, volgendo l’orecchio alla direzione del vento, si coglie il riso d’un bimbo. L’infanzia più splendida del vetro. Nulla più sazia al selvaggio dolore d’essere uomini. E infatti, in anni ormai lontani, purtuttavia presenti, capitommi, in quei lunghi pomeriggi del sabato scevro d’ogni impegno, le mani tese alla griglia rovente d’una stufa soave borbottante, all’impiedi col cappotto aperto, nel retrobottega dello speziale, il dottore Dinelli dell’omonima farmacia, oggi inaridta, d’altronde si muore, di ascoltare il suono di quelle parlate arcaiche per me, in quell’allora. Ivi si riunivano, esuli e profughi, indifferenti alle proprie fortune postume, per il dire nella loro lingua madre. E andavano, in suoni appena decifrabili, in quell’asburgico che alligna dentro il ciascuno di noi, ed in quel noi si coglie nella viscera la latitudine della nebbia, la tramontana, il silenzio dell’acqua sotto il ghiaccio, la neve lebbrosa del favonio, meleti e api, il ramato verdognolo del campanile e tutt’all’intorno campi e fienagioni dentro il sole che matura. Andavano viaggiando dentro la loro lingua e mentre andavano, la stufa incadesceva quasi che la pietà di quelle parole fosse ciocco, venivano avanti i bimbi che furono stati. E ridevano, esuli e profughi, delle loro filastrocche, al fondo di quel canto il dito alzato della maestra che li correggeva nella corretta dizione, ed io, vedendoli così felici, sorridevo di riflesso. Sono trascorsi molti anni da quei giorni, ed in questi molti anni altrettanti sono defunti. Sono là, ignudi e fermi dentro la collina. Sorrido, scrivendo questa notarella, di quel giringiro di volti che pare ruotare, così la terra, d’intorno il fermo asse della sovrana morte. Ed è così. Avrebbero potuto reclamare, gridare, inveire e invece andavano alla loro infanzia avita, alla mamma, al papà, ai nonni, alla maestra, ai compagni di scuola, all’asino, al cavallo, a quel colore del cielo che mai più avrebbero assaporato. Quanta materica pietà in quelle voci. Profonde e vascolari, sangue di carne nello spirito. Tra pietre desugate. Candide, di quel nitore di luna piena. L’onore ai morti di cui si legge, sgridacchiato e sbandiarato, oggi, per accattivarsi qualche misera percentuale, e la coseguente simmetrica giustificazionistica, che pena infinita. Che orrore, questi giorni in cui i garzoni di bottega sollecitano i sospesi. Orrore di quei volti, politici d’accatto, che, i baveri rialzati, i colli incassati di corpi smidollati, attendono, lo sguardo di circostanza, la fine del cerimoniale per concentrarsi sul numero dei presenti e fare di conto. Questo è. Orrore.
Emanuele Torreggiani