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Dall'archivio:

La fermata. Di Emanuele Torreggiani

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Reclina il capo, poggia la cretacea guancia andina sulla spalla dell’uomo suo e le si cadono le palpebre. Lui piega il capo e la fissa in quel di lei attimo d’abbandono imposto da una pesante fatica mentre il vecchio tram, uno tra quelli che hanno trapassato gli anni della guerra e i legni sempre vivi rammenteranno pattuglie sirene e oscuramenti, sferraglia. L’uomo si volge di là dagli alberi biondi d’autunno e traguarda un orizzonte tutto suo, forse scheggia d’un paese, arroccato da qualche parte lungo la verde Cordigliera, nel quale, in quel tempo, essi si incontrarono avviandosi poi, negli anni che sono, sino alla fermata di piazza Cordusio, tram 1.

Saliti, uscendo in affanno da un portone solenne, opera di un’aristocrazia consegnata al tremendo perimetro del sepolcro ed oggi ambulacro di commerci di mugnai vari e affini a prossime nere cronache.

In quell’attimo d’abbandono l’uomo la fissa, mormorando a fior di labbra che traduce lo spontaneo labiale, l’innocente aiuto a Dio. Allo scampanellio, lei ristorata da quei cinque minuti profondi di virginale pubblica intimità, si leva e discendono in Cadorna, zaino in spalla verso la strada ferrata che consegna a periferie. Sale una madre con il bimbo ancorato in passeggino che strilla urli acuti e stringenti. Lei, chiudendo la muta conversazione di una chat, tenta una distrazione ottenendo scalci.

Abbozza con un pupazzetto che il piccolo le strappa scaraventandolo tra le gambe dei viaggiatori e si agita facendo ondeggiare l’equilibrio degli esigui tralicci su ruote. Lei lo sgancia e raccoglie in braccio il figlio che subito accheta celando il volto nell’esile incavo del collo materno. Oggi del mondo, il bimbo, ha visto anche troppo.

 

E.T.

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