Era in quegli anni, a scavallo tra le due guerre, le due guerre civili europee, che i carri merce a doppio asse colmi di mattoni impilati a piramide, venivano dalla Milano della Bovisa, penetravano al passo del viandante dentro la fabbrica in edificazione. E andava su la ciminiera a ricalco d’ogni campanile. Il cuore vivo della fabbrica. Caldaia in ghisa, bocca di fuoco, carbone.
Il capo caldaia se la palpava quale madre d’un neonato, pronto a coglierne il minimo frignolio tra gli elementi inchiavardati, che all’impronta sigillava con un mastice bituminoso, che gli tatuava al nero fumo il pollice maestro. Era che furono i decenni del lavoro: energia per spostamento. E a migliaia, maschi e femmine, si adoperavano nei reparti. Venivano dal contado e ancora contadini nell’animo del lavoro.
Che sentivano loro tanto quanto il tomato nella vampa estiva, la verza del gelo e la sempiterna pertica ereditata dai padri mezzadri, mandata a granduro o granturco, a seconda della dizione così dal gutturale vernacolo, buono a frammezzare per becchime di polli e pastone di maiali mentre il fresco frusciante essiccato dal sole ai conigli in tremenda gabbia. Essi tutti furono, quegli uomini e quelle donne, corpo mistico, che il solo Giuseppe Pellizza da Volpede vide, quindi dipinse, nella verità dell’evento: “non è la verità vera che io debbo rappresentare nel quadro, bensì la verità ideale”, scrisse, calando il pennino nel calamaio, nella sua aristocratica dimora alessandrina al lume d’un cero.
Poi, quando la falesia della seconda guerra era colma di morti, lo spirito della storia prese a marciare e le fabbriche promisero il gran progresso. Che fu per tre decenni. Noi ne siamo i figli o i nipoti, a seconda della ciascuna cronologia. Infine, quale un uomo ancora vigoroso, preso dal nipote che corre a perdifiato, s’accorge che non può più. Siede dunque nella sua lunghissima ombra del tramonto. E quel tempo andato non è che memoria e oblio.
In questi giorni un marchingegno, dal tratto dinosaurico, ha mangiato la ciminiera della Snia Viscosa Novaceta. La si vide mentre veniva sbocconcellata in sbuffi di “cruenta polvere”.
L’ultima ciminiera dell’ultima grande azienda. E sovviene il comparare alle poche torri che ancora insistono di quel paesaggio che fu il medioevalrinascimento. In quella Bologna ve n’erano cento, ne restano due: la Garisenda e gli Asinelli. Centro torri che avranno sgranato occhi di meraviglia al pellegrino.
Il tempo è memoria e oblio. Si poteva… Sì. Si sarebbe potuto tanto ma non è stato. Si poteva mantenerla e incistare nella sua camera interna Giuseppe, Giuseppe il Lavoratore.
Padre putativo, come lo furono i nostri operai che lasciavano i pargoli alle madri, tutti presi com’erano dal lavoro indefesso per la famiglia e lo studio dei figli. Si poteva. Si sarebbe potuto. Non è stato. Così è. Era di quella materia che nei dimentichi secoli s’alzarono le prime chiese. Dopotutto, il tempo non è che memoria e oblio.
Emanuele Torreggiani