Terza Davis Cup della nostra storia, la seconda consecutiva nell’attuale formula (inguardabile). Con queste regole e questo Sinner, che vuol dire partire da uno a zero in una sfida al meglio delle tre partite, l’Italia è decisamente la nazionale di riferimento e non ha tradito le attese. Grazie anche a Berrettini, che tanto si merita il successo per le sfighe a raffica di questo 2024, che nella fase finale di Malaga ha fatto tre su tre: tre partite, di cui una in doppio, e tre punti.
Nonostante Volandri gli abbia preferito un Musetti impresentabile contro l’Argentina e lui abbia accettato l’esclusione senza battere ciglio. Tre sfide, con Argentina, Australia e Paesi Bassi, e poche emozioni, con i nostri atleti sempre in controllo al cospetto, va detto, di rivali tutt’altro che eccezionali. Ma questo è ciò che passa il convento, cioè poco, e bisogna accontentarsi. Con Alcaraz bollito ormai da luglio, Zverev disertore e i russi, vabbè lasciamo stare, l’italia per perdere questa Davis Cup avrebbe dovuto mettersi davvero di impegno ma per gli amanti degli almanacchi a prescindere, e relative statistiche, c’è di che essere soddisfatti.
Oggi sono stati sufficienti quattro set piuttosto rapidi per disporre dei nostri avversari. Berrettini ha maltrattato Van de Zandschulp, più famoso per aver messo fine alla carriera di Nadal che altro, mentre Sinner ha incrociato la racchetta magica di Griekspoor, uno che ha picchi di rendimento e qualità tennistica tali da non invidiare nulla a nessuno, Jannik incluso, ma il tennis è poi la somma di tante cose che purtroppo gli mancano. Risultato, due parziali e tutti in doccia ma un’ora di gioco notevole. Peccato che in casa RAI, al microfono, nessuno se ne sia accorto e l’abbiano trattato come un Ruud qualunque.
A conti fatti, senza la giornata sciagurata di Musetti – ironia della sorte, il nostro miglior tennista nel senso qualitativo del termine – l’Italia avrebbe probabilmente chiuso la trasferta di Malaga imbattuta. Poco male, come già detto era realmente difficile arrivare ad un risultato finale diverso da quanto si è puntualmente verificato. Non per sminuire niente, ai livelli di eccellenza nulla è mai facile, ma per chi guarda senza l’ossessione del risultato sono stati pochi i momenti di vero interesse. Bella la dimostrazione di attitudine alla lotta punto a punto di Berrettini contro quel diavolo di Kokkinakis, un altro che a tennis gioca divinamente e forse per questo non vince mai, oltre ad una certa familiarità con gli infortuni, stupendo il braccio di ferro tra Sinner e Griekspoor per almeno un set e mezzo dell’incontro decisivo. Stop, non ci viene in mente altro.
Così, il ricordo corre svelto ai pomeriggi infuocati degli anni ’90, quelli della Davis vecchia maniera. Quindi, niente consolle e dj che sparano musica a tutto volume ma la bolgia dantesca, e pure un po’ cattiva, di Maceió o di Cagliari o del Forum di Milano, per chi se li ricorda. Azzurri, all’epoca, mai sufficientemente forti per vincere ma meravigliosi nel credere di poterci riuscire, fino all’ultima goccia di sudore. Fino all’ultimo tendine, spezzato come quello di Gaudenzi, il gladiatore faentino cresciuto secondo il dogma di Muster e non serve aggiungere altro. L’Italia del Camporese underdog che giustizia Moya e di Sanguinetti che zittisce gli States a casa loro. Ovviamente, l’Italia di Paolino Cané che, in un weekend che si protrae fino all’ora di pranzo del lunedì, abbatte Wilander a suon di turborovesci. Insomma, la Davis che ci ha visto crescere. Cantata da Galeazzi, che i suoi successori insipidi non sanno più come far rimpiangere.
In ogni caso, è obbligatorio rendersi conto dell’eccezionalità statistica di questo momento d’oro per il tennis azzurro. Qualcosa di mai visto e, forse, di irripetibile. In questo preciso istante, infatti, deteniamo BJK Cup, le nostre ragazze, e la Davis Cup, gli uomini. Abbiamo il numero uno del ranking che chiude l’annata con due Slam più il Masters e la numero quattro, Paolini, capace di disputare due finali nei Major e dominare pure in doppio in coppia con Errani. L’eccezionalità vera risiede in un dato. Sette tennisti nei primi cinquanta del mondo sono la cartina al tornasole del nostro movimento che, per la prima volta nella storia del tennis, guarda tutti dall’alto. E non è certo colpa nostra se gli altri faticano a trovare alternative credibili, il pane duro della sconfitta prima o poi tocca a tutti. Noi, che lo abbiamo masticato per decenni, adesso passiamo all’incasso, una sensazione davvero piacevole.
Bravi tutti.