In tivù gli ultimi 12 giorni di Roger Federer da tennista. Una ricognizione sulla Bellezza

Il ritiro di Roger Federer è stato un lutto, non è una iperbole, perché non si trattava di dover rinunciare alla gestualità di un campione ma alla fine di un'idea

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Se uno come David Foster Wallace lo ha definito un’esperienza religiosa un motivo ci sarà. Il più bello di tutti, secondo il John McEnroe-pensiero, uno che in quanto a bellezza profusa parla la sua stessa lingua dei sogni. La perfezione sul campo da tennis, infine, secondo Rafael Nadal. Tutt’altro che perfetto stilisticamente, il maiorchino, ma un ragazzo che, per diventare grande, alla perfezione della sua nemesi si è dovuto rapportare quale regola di vita, imparando a riconoscerla e spesso a domarla. Roger Federer da Basilea è stato ovviamente tutto questo e, per farla breve, l’universo del tennis non lo ringrazierà mai abbastanza. Intanto, per aver preso per mano un’epoca nefasta, quella che fece seguito al ritiro di Pete Sampras e che proiettò in cima al mondo onesti comprimari della racchetta come Ferrero o Hewitt, e aver restituito l’eccellenza. L’avvento del basilese sul pianeta tennis, quindi, è il John Belushi che veste i panni di Jake, uno dei fratelli del Blues, che entra in chiesa e vede la luce accompagnato dalla voce di James Brown.

Il merito più grande, però, è un altro: un calcio nel sedere assestato al pensiero bonipertiano, quello ancorato alla supremazia della vittoria ad ogni costo. Un match di Federer, prima che un esercizio d’agone, è stato un’opera d’arte, perché nemmeno l’avvento dell’intelligenza artificiale sembra essere in grado di riprodurre le medesime linee e proporzioni leonardesche, da uomo vitruviano. L’approccio, quindi, fu ogni volta quello della Prima alla Scala, dove i punti continuavano a valere quindici e a scandire l’avanzamento dell’evento ma non se ne curava nessuno. Ancorare uno spettacolo siffatto alla contabilizzazione astratta, per la quale il dominio è del quanto sul come e una demi-volée smorzata vale quanto un dritto colpito impugnando l’attrezzo come una vanga, non fu solo lesa maestà ma un pensiero offensivo nei riguardi di madre natura e della sua benevolenza, perché capace di donare ad un uomo speciale una forma di talento inspiegabile. Se di ballerini formidabili è piena la storia, di Nureyev ce n’è soltanto uno. Anche di Michael Jordan non esiste copia, benché LeBron James possa aver bucato più retine di lui in carriera. Come poco importa che Cristiano Ronaldo abbia messo a referto più goal di Diego Maradona, imperituro alfiere di tutt’altro mondo. Insomma, non è solo la sua compagna di vita, Mirka, a ripetere spesso che lo avrebbe voluto vedere giocare per sempre.

Il ritiro di Roger Federer è stato un lutto, non è una iperbole, perché non si trattava di dover rinunciare alla gestualità di un campione ma alla fine di un’idea che ha abbracciato sport e vita, spesso la strssa cosa. A raccontare gli ultimi dodici giorni di vita agonistica di Roger ci ha pensato la pellicola “Federer: Twelve Final Days” da qualche giorno in circolazione. Un lavoro diretto da Asif Kapadia, lo stesso regista che in passato si è dedicato anche a Senna e Maradona, sempre a proposito di epica sportiva. Dodici giorni che accompagnano il più grande di tutti nelle decisione di dire stop con il tennis, perché ventiquattro anni di allenamenti e battaglie hanno lasciato un segno indelebile su ginocchia ora esauste, non più capaci di assecondare le sue movenze. Il film è edificato intorno alla commovente lettera scritta da Roger per congedarsi dai suoi milioni di tifosi disseminati sul pianeta e alla routine che porta un atleta ad approcciarsi al match che potrebbe essere il più importante della sua carriera. Nello specifico, l’ultima sua apparizione da giocatore vero, in coppia con Nadal, come solo nelle fiabe e nella cornice faraonica della Laver Cup; una kermesse fortemente voluta proprio da Federer che sapesse dare al tennis ciò che la Ryder Cup dà per genesi al golf: respiro planetario.

E planetaria è stata la rivalità, appunto, con Nadal, forse una delle più iconiche della storia dello sport, un Coppi-Bartali con la racchetta in pugno. Lo chiamavano Fedal, l’acronimo è chiaro, e ha preso lo sport che fu di Bill Tilden per proiettarlo su traiettorie di popolarità inesplorate, quasi calcistiche nell’accaloramento degli aficionados. Così, le parole spese da Rafa durante lo svolgimento del film, toccanti e sincere, assumono tutto un altro spessore, perché a memoria d’uomo è difficile ricordare un caso analogo di rivalità feroce e, insieme, intrisa di amicizia e condivisione. No, non c’è. Dodici giorni che ricordano la parabola che ha fatto di un raccatapalle pieno di sogni la definizione plastica del gioco che amava. Intervengono in tanti. Detto di Nadal, ci sono Djokovic e Murray, quindi il resto dei Big Four che hanno segnato quest’ultimo ventennio, vecchie glorie come Laver, Borg e McEnroe, l’amico fraterno Luthi. C’è, ovviamente, tutta la famiglia: Mirka, moglie e pilastro, mamma e papà, le due coppie di gemelli. Di fatto, un abbraccio lungo un paio d’ore che hanno il difetto di scorrere troppo in fretta. Un lavoro che, se non aggiunge nulla di nuovo a quanto già non sapessimo, mette la parola fine ad una fine che, ancora ventiquattro mesi dopo l’ufficialità, ci si rifiuta di accettare. Il pianto incontrollato di Nadal sotto gli occhi delle telecamere, a valle dell’ultimo punto giocato da Federer prima di appendere la racchetta al chiodo, è una di quelle cose per cui valga sempre la pena vivere, perché depositario di un messaggio nobile che prende amicizia, rispetto e riconoscenza e ne fa una cosa sola. Morale, tra chi ha già avuto il privilegio di regalarsi il film (chi non l’ha fatto, lo faccia) c’è chi ha pianto e chi mente. Perché ventiquattro anni vissuti insieme, accomunati da una passione grande, ti restano appiccicati alla pelle per sempre.

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