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Il dolore dei figli – di Emanuele Torreggiani

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Non ricordo più dove lo scrive Ernst Jϋnger, quando sei padre sei padre di tutti i ragazzi che ti traversano la strada, non ricordo dove e non intendo più andare a verificare. Non m’importa. È la verità, complessa, cioè piegata dentro. In quel piegato da dispiegare. Dispiegare, in quell’aprire che vuol dire mettere a nudo. Complesso e non amplesso. Punto. Chi non lo capisce che giri la pagina, Che giorno è ora? Ah, sì! Sono le tre e dieci del giovedì 13 febbraio. Alte escursioni termiche, nel febbraio. Dal sottozero notturno ai venti gradi del diurno. Ma non è per niente questo che intendo scrivere questa notte. Mi fa fatica scriverlo. Perdonatemi. Pure mi è necessario, ora, per sopravvivere. Quell’hic et nunc da analfabeti delle serali. E sia chiaro, il sopravvivere non il vivere, lo si colga. Mentre scrivo sto ascoltando il Pachbell Canon in D, e sia. Mio figlio, così autentico da me, e per fortuna sua, egli mi è forma ma non mai, mai, proprietà, mi telefona lunedì 10 febbraio alle 9.15 del mattino. Dormivo. Allo squillo mi discuoto. Dormivi papà? Ma figurati, gli dico, quasi fossi un gaucho della Patagonia sveglio da prima dell’alba. Non gli chiedo cosa accade.

 

La sua voce vestita a lutto mi fascia. Punto i gomiti e mi levo dal guanciale, dormo da tre ore. Gli dico di rimanere in linea. Accendo una sigaretta ch’è sempre una sincera alleata. Parla. Papà. Sì. Papà, sì. Te lo ricordi B. Sì. Potrebbe stare zitto mio figlio, sta parlando al passato. Potrebbe stare zitto per l’eternità. E con la mano cerco il pacchetto di sigarette. Perché un’altra è ancora poco. Taccio. Papà. Sì… Sei lì? Dove vuoi che sia? Puntello i gomiti sul guanciale e cerco una via d’uscita che non c’è. Ben si è buttato sotto il treno questa mattina. Lo vedo. Questa è la morte, il vedere. A mio figlio non dico nulla. Taccio. Papà? Sono qui, amore mio. Papà, e la sua voce si spezza in singhiozzo atono. Papà? Piangi, piangi tutte le tue lacrime, figlio mio, anche Achille piangeva. Gli Eroi sapevano piangere. Non sono più capace di piangere, papà. Gli dico che lo so. Sappiamo molte cose l’uno dell’altro anche se non ce lo siamo mai detto. Cosa posso fare papà? (Che parola grossa papà), gli dico di consolare i suoi compagni di classe. Tu lo sai com’è la morte, abbraccia i tuoi compagni, carezzali in silenzio. Lasciali piangere, lasciali piangere finché non sono stremati dalle lacrime. E se qualcuno urla lascia che il suo urlo estingua. Poi prendilo in braccio. Tienilo lì. Dico a mio figlio che qualcuno questo mestiere lo deve fare, oggi tocca a te amore mio. Lui mi dice che lo sa. Che lo sa da quando è morta la mamma. E allora fallo. Gli dico, la mamma ti accompagna. C’è silenzio al telefono. Papà? Dimmi. Ti ricordi di Ben? Sì, gli dico. Gli dico che ricordo fisicamente il suo amico Ben. Ricordo come mi strinse la mano e vedo la sua mano che il treno gli sta portando via. Gli dico anche questo perché è dovere dire tutto sino al sangue. Grazie papà, mi dice mio figlio. Poi mi sono levato e sbattuto sul divano selezionando un oratorio di Bach. Ne scrivo ora, alle cinque del mattino di giovedì 13 febbraio. Perché? Non lo so, forse solo per seguitare a vivere.

 

Emanuele Torreggiani

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